50 anni del Museo delle Palafitte del Lago di Ledro (TN), commovente allestimento eco-auspicabile
Sostenibilità, eco-compatibilità strutturale, coincidenza tra luogo di scavo e sede espositiva, osmosi tra esposizione scientifica e osservazione empirica diretta, immersione narrativa tangibile nella Natura, legame inscindibile tra ragioni dell’intelletto e aspirazioni dell’ambiente, il medesimo Paesaggio come testimonianza preistorica e valore del presente: è il più vivido archetipo di una museologia moderna, dinamica e necessaria lo straordinario Museo delle Palafitte del Lago di Ledro in Trentino, il quale nel celebrare in questo 2022 l’importante traguardo dei cinquant’anni di attività invece di avvertire il Tempo trascorso si mette piuttosto a dominarlo, ripensarlo, immaginarlo, perfino riprogettarlo, partendo da una piccola grande storia regionale per assurgere a esempio senza confini.
Oggi sede territoriale di quell’altro gioiello che è il MUSE, il Museo delle Scienze con sede in Trento, il Museo delle Palafitte del Lago di Ledro apre nel 1972 in località Molina proprio a ridosso dall’esatta collocazione di un villaggio palafitticolo già rinvenuto da anni su questa sponda orientale dell’incantevole specchio lacustre, la cui datazione è fissata tra il 2.200 e il 1350 a.C., di tale rilievo da ottenere nel 2011 l’assegnazione del riconoscimento di Patrimonio dell’Unesco.
Prima del museo, i resti delle palafitte di Ledro “rividero il sole dopo migliaia di anni nell’autunno del 1929, quando il livello del lago fu abbassato per i lavori della centrale idroelettrica in costruzione a Riva del Garda: sulla sponda meridionale del lago affiorò una distesa di oltre diecimila pali, testimonianza di una delle più grandi stazioni preistoriche scoperte fino ad allora in Italia, nonché una delle più importanti – ancora oggi – in Europa”.
Nato per accompagnare “il visitatore nella vita quotidiana dell’Età del Bronzo, tra ricostruzioni e resti originali”, il museo nel 2019 ha ricevuto nuovo slancio da parte della Provincia autonoma di Trento, grazie a un rinnovamento anche architettonico che ha puntato ad accogliere tutte le istanze virtuose dei moderni criteri edilizi.
L’edificio del museo ha infatti ottenuto “la Certificazione LEED® [Leadership in Energy and Environmental Design] livello Gold, lo standard di certificazione energetica e di sostenibilità più in uso al mondo: si tratta di una serie di criteri sviluppati negli Stati Uniti e applicati in oltre 100 paesi del mondo per la progettazione, costruzione e gestione di edifici sostenibili dal punto di vista ambientale, sociale, economico e della salute”.
Nell’allestimento odierno il museo “espone parte dei raffinati prodotti artigianali del villaggio palafitticolo, uno dei più importanti dell’arco alpino: la ricostruzione di quattro capanne, complete di arredi e suppellettili, riproducono uno spaccato di vita quotidiana preistorica all’interno della quale il visitatore può immergersi scoprendo come vivevano i propri antenati”. La gestione aggiunge che “il nuovo allestimento interno si basa su concetti quali dinamismo, trasparenza, leggerezza, immediatezza, spettacolarità e inclusione per immergere il visitatore in uno spazio privo di confini e percorsi obbligati: i temi affrontati sono quattro, articolati su un asse concettuale che va dal Macro al Micro; partendo dalle palafitte come fenomeno alpino ed europeo, si passa alla dimensione del villaggio e del territorio che lo circonda, per arrivare infine agli individui, alle loro attività e alle tante cose, piccole e grandi, che ci distinguono e ci accomunano con gli abitanti della palafitte di 4.000 anni fa”.
Altamente consigliata la visita guidata, perché il personale è di una motivazione mai vista e trasferisce al visitatore non soltanto nozioni ma anche il sincero entusiasmo di chi sa di lavorare in un luogo di eccellenza ben raro. Se poi si ha la possibilità di interagire con gli archeologi, l’esperienza diventa allora totalizzante, perché si può comprendere il lavoro lunghissimo che sta dietro ogni reperto, dalla sua individuazione all’estrazione materiale, quando poi inizia l’attività di indagine più difficile che esista se il tempo da studiare è lontano.
Il tempo remoto, in assenza di documenti scritti e pertanto di storiografia, viene indagato sulla base di supposizioni, confronti con altre realtà omologhe anche lontane, analisi chimiche, su cui si innesta tanta antropologia culturale, attraverso l’analisi di ritualità, usi e costumi, tecniche di sepoltura e sistemi funerari, senza dimenticare l’apporto di biologia, geologia e di recente della genetica. Un lavoro suggestivo che permette qualche personalizzazione e delle libertà interpretative ma impone comunque i paletti inamovibili del rigore.
E’ proprio mettendo insieme tutti gli elementi citati che si ottiene come risultato questo museo innestato in un sito archeologico, in cui quanto è stato ritrovato è, per le parti emerse, frutto della carbonizzazione seguita agli incendi che ha fossilizzato e quindi eternizzato porzioni strutturali e oggetti, mentre per quanto rimasto sommerso è intervenuta l’azione protettiva dell’acqua del lago che ha impedito ai materiali organici di essere assaliti dagli agenti atmosferici.
L’utilizzo del diorama e del modello su scala qui è più di un linguaggio divulgativo, rappresenta una necessità epistemologica tanto per l’azione dell’esperto quanto per l’osservazione vigile dell’utente, al fine di ricavare proporzioni, forme, geometrie e misure, tutti addendi in grado di portare a esiti che abbiano quanto più l’oggettività della matematica, in un ambito così inevitabilmente affidato alla probabilità empirica.
Tuttavia è innegabile quanto la miniaturizzazione dettagliata dell’invisibile all’occhio comune e la ricostruzione pedissequa di quanto perduto rappresentino un formabile elemento di fascino per il visitatore, accrescendo esponenzialmente la potenza evocativa dello storytelling museale.
Basti guardare la riproduzione dell’esatta collocazione dei pali di sostegno del villaggio, capace di fare avvertire la monumentalità dell’impresa umana ma anche di costituire uno spazio di grazia estetica che oggi non faticherebbe a essere classificato come land art.
Efficacia di racconto che esplode quando al passo successivo si ergono in tutta la loro millenaria verità i pali autentici recuperati dal villaggio lacustre.
Segnati da confronti severissimi con lo scorrere del tempo ma anche dalla virulenza di eventi avversi, cogli in ogni ferita della superficie lignea quasi una linea del tempo del divenire d’una civiltà di rara forza di resilienza, mentre le aperture tecniche e gli scavi sul fusto timbrano il genio di una scuola ingegneristica capace di sbalordire ancora oggi per la logica applicata a plasmare le forze della natura.
Il primo focus consistente in cui ci si imbatte nel percorso espositivo è quello dell’alimentazione, non a caso, poiché scandagliando il rapporto tra una comunità e il cibo che consuma è possibile risalire alla determinazione di popoli nomadi o stanziali, allo svolgimento o meno di pratiche agricole, commerci e rituali, costruendo un puzzle che possa ricomporre l’organigramma sociale di un popolo e le relazioni con gli altri.
In questo senso il sito di Ledro è stato generoso di informazioni, poiché ha ben conservato evidenze del menu del tempo, tra grano, orzo, miglio, carne, latte, miele, corniolo, sambuco, frutti di bosco, pera, mela, fico, pesce e ostriche di lago.
Sono poi gli strumenti di trasformazione del cibo a dirci dell’uso delle materie prime, come le macine a pietra per il grano.
Da qui scaturisce la scoperta foriera delle novità più entusiasmanti, riguardante il cosiddetto pane di Ledro.
Si tratta di un vero pezzo di pane prodotto nel sito circa quattromila anni e anch’esso conservato grazie alla parziale carbonizzazione. Le moderne tecniche di indagine genetica hanno condotto a individuarne ingredienti e lavorazione, rendendolo uno dei più preziosi reperti al mondo legati alla gastronomia ancestrale.
L’apertura mentale che caratterizza tutto l’indotto del museo ha portato quindi a ideare un’evoluzione straordinaria della presenza di tale reperto, mettendo insieme scienziati e forze economiche del territorio al fine di riportare in vita e quindi in produzione proprio il Pane di Ledro, facendone una specialità identitaria con tanto di marchio, azione di tutela e valorizzazione, nonché di prevedibile indotto.
Non manca tanto al suo esordio, ma gli appassionati sono già in condivisibile fibrillazione.
Il museo a ogni passo ha la rara capacità di aprire un’intera linea di racconto e di condensarla nello spazio di una teca, se non addirittura comprimerla nell’illuminazione fulminea di una sineddoche.
In questo modo la grazia degli indumenti e la strabiliante bellezza degli ornamenti illustrano un popolo dalla manualità prodigiosa dotato certamente di evoluto concetto dell’estetica, mentre la presenza dell’ambra accende una luce sulla possibile ricchezza del popolo del tempo e con essa accredita una posizione di rilevanza di tutta la comunità nello scacchiere relazionale dell’epoca.
Il cranio di orso bruno incarna il capitolo del rapporto tra l’Uomo trentino e l’animale simbolo del medesimo territorio, ancora oggi in divenire, ma già allora denso di problematiche, tra immaginabili spartizioni di territorio e risorse, ma anche possibili usi della bestia tanto ai fini della sopravvivenza quanto in riti sciamanaci, stabilendo comunque una forma di simbiosi inestricabile destinata all’eternità.
Alla stessa maniera è densa di materia narrativa un’installazione costituita da archi in legno di nocciolo, tasso, betulla, maggiociondolo, olmo, maclura pomifera e robinia realizzata dallo stesso staff del museo, la quale raffigura con il dispositivo dell’accumulo l’antica e diffusissima produzione di archi nella zona, così estesa e di qualità da ottenere una leadership assoluta anche a livello extra territoriale.
Tra i pregi del museo, il ridotto numero di reperti esposti, frutto di severe scelte che indicano lucidità intellettuale e rispetto dell’utente: in tale maniera infatti ogni singolo oggetto acquista maggiore rilievo, assecondando con precisione letteraria la scansione del racconto, diventando ora punteggiatura ora titolo, capitolo, riga di un sommario, mentre il visitatore non viene affaticato dall’inutile esibizionismo di doppioni di cui soffrono tanti musei archeologici vecchia maniera.
Il concorso di collocazione spaziale, sottolineatura scritta dei pannelli ed evidenziazione delle teche rende così quasi apodittica l’individuazione dei reperti di maggiore pregnanza, come avviene per il pugnale in bronzo dalla realizzazione tanto originale e con decorazioni così particolari da meritare la definizione di Tipo Ledro, sancendo la presenza di eccelsa artigianalità nel villaggio ma suggerendo anche un’organizzazione verticistica con le sue gerarchie sociali, perché una simile meraviglia poteva permettersela un notabile o un capo.
Impossibile poi non avvertire il peso del ritrovamento di una piroga monossile, ricavata quindi da unico tronco, in questo caso di abete, visto che troneggia in posizione centrale per dare vita a interazioni con le pareti a vista che caratterizzano l’edificio e le immagini di un monitor posto in dialogo con l’oggetto, giusto per ricordare l’importanza dell’elemento acquatico tanto negli spostamenti quanto nel reperimento delle risorse.
A essere però dichiarata “oggetto più prezioso della collezione” è la corona di bronzo, diadema quasi senza eguali in tutta la preistoria europea, chiaro simbolo di potere assoluto e quindi documento tangibile della presenza di un’organizzazione sociale gerarchica nel villaggio di Ledro.
Quando nel tragitto di visita ci si sposta all’esterno e si inizia a calpestare lo stesso terreno naturale sul quale è stata eretta la vicenda millenaria di tale civiltà palafitticola, l’emozione diviene incontrollabile.
E’ commozione autentica che ti coglie nell’individuare appena sotto il pelo dell’acqua i pali rimasti piantati al loro posto come secoli fa…
… mentre la sbalorditiva meraviglia del lago deflagra innanzi a te come una tavolozza di colori e forme posta sul cavalletto della Storia.
Così l’apparizione della prima palafitta ricostruita diviene epifania di una gioia atavica riservata all’intelletto…
… all’interno della quale il viaggio nel tempo si stacca dalla letteratura per farsi epidermico…
… tra ricostruzioni del desco che nel cristallizzare l’attimo finiscono con l’incapsulare una tranche de vie…
… in cui ogni dettaglio architettonico è un sussulto di stupore…
… e ogni riassunto fenomenico trascina nella quotidianità di arti e mestieri…
… fino al dettaglio di una canna autoctona che ospita diversi esemplari di ape solitaria, specie mansueta che non punge perché non deve porsi a tutela di una regina e nemmeno di un alveare visto che non produce miele, vivendo invece in maniera solipsistica, nidifica
Si aggiunga che la grande intelligenza strategica del Responsabile della Rete Museale di Ledro, Donato Riccadonna, il quale insieme ai suoi collaboratori sta rendendo il museo un organismo vivo e aperto alla conoscenza tout court, offrendo i suoi meravigliosi spazi a eventi di ogni tipo, anche apparentemente lontani dall’argomento archeologico, eppure capaci lo stesso di creare relazioni tra un’utenza e il Sapere, così al termine di ogni iniziativa rimarrà comunque nei partecipanti traccia dell’atmosfera e dei valori del museo.
Una prova di consapevolezza e modernità, poiché palesa l’assenza di ogni timore di contaminarsi con l’aspetto ludico della vita coltivando una visione gioiosa e non più punitiva dell’apprendimento: sport, animazione per bambini, programmi televisivi, enogastronomia, laboratori didattici, concorsi a premi, tutto si pone in armonia con le istanze museali senza inficiarne la credibilità bensì alimentandone l’empatia.
Un museo molto sentito dalla comunità che fin dall’inizio ha contribuito alla sua emersione dal buio dell’oblio anche con il lavoro materiale.
Ma è il museo stesso ad avere una capacità di attrazione endogena che ti porta ad amarlo fulmineamente, tanto da rimanere una delle memorie più indelebili nelle vite di chi lo visita.
Info: https://www.palafitteledro.it/