L’unicità del Museo della Memoria contadina di Casalciprano, in Molise
Di musei diffusi ne abbiamo visti parecchi, di paesi dipinti pure, di esposizioni sulla civiltà contadina ancora di più e non mancano nella nostra memoria anche esempi di città mutate in allestimento, ma questi elementi sono talmente portati all’estremo con grande originalità nel Museo a cielo aperto della memoria contadina molisana di Casalciprano da doverne riconoscere l’unicità.
Perché il borgo in provincia di Campobasso non si limita a ospitare o inglobare il museo e i suoi elementi, ma si fonde con essi, facendo divenire l’allestimento la colonna vertebrale del paese. Infatti il percorso espositivo coincide con quello di un’ideale visita del borgo, pertanto seguendolo non soltanto si gode dell’allestimento ma anche dell’intero contesto cittadino.
La provincia di Campobasso nel promuoverlo spiega che “percorrendo vicoli e strade del centro storico di Casalciprano, si avrà la sorpresa di scoprire l’antico borgo medievale e la meravigliosa suggestione di ritrovare frammenti di vita passata”, attraverso “un percorso all’aperto originale e insolito nei suoi concetti espositivi, ricco di contaminazioni del tempo in cui oggetti tradizionali trovano completamento con opere scultoree e pittoriche contemporanee”, con una suddivisione per argomento espositivo e un insieme di “frammenti tutti ispirati alla storia dei luoghi” composti da manufatti e documenti introdotti da pannelli informativi.
Si vedono “oggetti, strumenti e costumi, prevalentemente originali e riconducibili a usi quotidiani della vita contadina”, inseriti in teche, mentre i dipinti, “ispirati alla documentazione fotografica, descrivono momenti di aggregazione: la festa, le attività contadine, gli eventi religiosi”, fino alle sculture in bronzo che “ritraggono figure catturate come in una istantanea mentre i bassorilievi in pietra raccontano il lavoro antico di uomini e donne”.
L’incipit letterario della visita è vergato su un volume stilizzato: “la testimonianza della coraggiosa fatica, ineluttabile fardello esistenziale di un mondo chiuso, duro e difficile, sopportata dai nostri antenati per la sopravvivenza propria e della propria famiglia, in un forzato, ma non per questo meno cosciente e sofferto, sacrificio di sé” .
Così si parte, a piedi, tra i vicoli del borgo, in cerca di storie.
Commuove il racconto degli esposti, come venivano chiamati i neonati abbandonati, i quali, “avvolti in laceri panni”, erano lasciati in esposizione “nei pressi delle chiese, delle stalle o lungo strade transitate di campagna”, affinché qualcuno si accorgesse della loro presenza e li prendesse con sé, mosso a compassione. Un fenomeno rilevante con “radici e motivazioni profonde” nella società contadina qui narrata. Erano proprio le famiglie contadine a ricevere in affidamento questi infanti abbandonati, per provvedere esse ad allattarli e mantenerli, ricevendo in cambio un compenso in denaro dalla pubblica assistenza. A questi figli di genitori sconosciuti venivano imposti “nomi di fantasia, di personaggi famosi oppure nomi che si richiamano ai luoghi e ai tempi del ritrovamento”.
Intenerisce l’area dei giochi dei bambini, divertimenti ancora materici e tangibili, fatti di pochi oggetti e tanta fantasia, ma soprattutto di socialità fisica, tra coetanei…
… o con dei genitori ancora presenti.
I pannelli spiegano come si facevano certi strumenti di gioco…
… o ne illustrano modalità e regole.
Alcune icone tratteggiano figure legate alla religiosità così sentita da investire anche i più piccoli e tracimare poi in forme di superstizione.
Intanto i decori narrativi si impadroniscono di ogni angolo architettonico, anche il più recondito, fosse anche un arco sul quale dipanare il rito della vendemmia.
Il mestiere nobile della vinificazione viene affiancato dalle partiche più degne e prestigiose della nostra società, come l’agricoltura…
… e la pastorizia.
Figura d’altri tempi, quella del fotografo che arrivava nei giorni di festa “con quella sua scatola magica e misteriosa”, ambulando in cerca di clienti da immortalare.
Stupendo il contorno di scatti in cui a ogni espressone è stata assegnata una caratteristica, traducendo la fisiognomica in somatica sociale.
Se la mietitura si nutre volutamente dell’iconografia dal sinistro rimando alla tragedia del fascismo e alle grottesche posture mussoliniane…
… le teche lì accanto riconducono invece alla serietà del lavoro nei campi attraverso attrezzi agresti.
L’esoterismo fa capolino attraverso l’ancora vivida suggestione del “rito empio e sacrilego del Sabba”, un “convegno di streghe alla presenza del maligno”, in cui avvenivano “orge, danze sfrenate e abbondanti banchetti”: pagine marmorizzate raccontano ciò, puntate verso il Colle di Corsato, “individuato dall’antica credenza popolare” come luogo di raduno per tale genere di evento.
Viene poi rimembrata la natura empirica della medicina popolare, legata a riti che sconfinavano nella superstizione e nel ricorso a miti apotropaici, insieme all’uso di piante dagli effetti stupefacenti.
La parte espositiva in interno abbandona l’abbagliante bellezza del contesto en plein air, per acquisire il fascino del manufatto antropologico, ricostruendo tranche de vie a grandezza naturale, idilli tridimensionali con oggetti d’epoca e la particolarità dei volti dei personaggi di vivida naturalezza, inevitabile, dato che a prestare quei volti come modelli sono stati veri abitanti di Casalciprano, i quali, mettendoci la faccia, hanno vergato il senso di appartenenza identitaria alla propria comunità, sancito il legame sociale con il museo, nonché consegnato il proprio patrimonio somatico all’eternità.
In uno splendido edificio di rara grazia, si snocciolano così le storie della proposta di fidanzamento che si riteneva accettata se veniva ritirato in casa il ceppo che l’aspirante coniuge lasciava davanti all’abitazione della donna anelata…
… proseguendo con i classici lavori casalinghi svolti dalle donne…
… insieme ai lori strumenti e agli arredi circostanti.
L’esposizione colpisce anche per il dato estetico e insieme comunicativo, poiché la presenza di cornici assume spessore filosofico, tra una dichiarata mise en abyme e un’elevazione artistica del vissuto quotidiano…
… mentre questa cristallizzazione teatrale crea intriganti profondità di campo che squarciano la quarta parete e trascinano nelle viscere litiche della costruzione.
Inevitabile il richiamo alle paure infantili, magari inculcate dai genitori per fini disciplinari ma pronte a inseguirti per tutta la vita…
… ma anche la raffigurazione della gioia maturata con poco, magari un po’ di musica e tanta voglia di ballare, come nelle migliori bettole….
… fino alle figure immancabili in ogni paese, come l’ubriacone perennemente col fiasco in mano…
… e le noti dolenti, quali la povertà che conduce alla marginalità sociale…
… e le ferali cattive notizie con cui si conclude quella follia umana che chiamiamo guerra.
Si torna all’aperto con un murales che cerca di legare il passato appena raccontato con un’ipotesi di futuro piuttosto distopica, visto che l’elemento umano sparisce per lasciare posto a un robot.
Il percorso a cielo aperto regala anche l’emozione di alcune nicchie espositive incastonate in vecchie case di pietra.
Nota conclusiva con un necessario tributo alla figura dell’emigrante che abbandona casa e affetti “con il coraggio che nasce dalla disperazione”, diretto verso “la speranza di un futuro migliore”.
Il percorso museale si chiude ancora in chiave letteraria, ribadendo la metafora del libro, in cui quanto abbiamo visto viene sintetizzato quale “saggezza della tradizione”.
Nel video che segue, un compendio delle tante suggestioni visive ricevute durante una visita molto stimolante.