Collezione Verzocchi a Forlì, capolavori d’arte nati da impresa e Lavoro
Un imprenditore illuminato che invece di ricorrere alle solite attività pubblicitarie decide di commissionare opere originali ad alcuni dei più grandi artisti del suo tempo con la sola richiesta di inserire l’immagine del prodotto da vendere, creando così una delle più straordinarie, intelligenti e preziose collezioni d’arte del mondo, per poi donarla in un grande slancio di generosità a un ente pubblico affinché potessero goderne tutti: nasce da questi nobilissimi e brillanti presupposti la Collezione Verzocchi ospitata nel Palazzo Romagnoli nel centro di Forlì, concentrando in sé complessità, estasi e pionierismo in maniera unica.
Si tratta infatti di un potenziale autonomo museo d’impresa collocato però nel cuore di un’esposizione civica di proprietà del comune romagnolo, esemplare fusione delle istanze virtuose di pubblico e privato nell’ambito dei Beni Culturali.
Alla base c’è l’apertura mentale dell’imprenditore di origine forlivese Giuseppe Verzocchi che in netto anticipo sui tempi ideò nel 1949 una forma geniale di product placement, pagando a pittori di grande fama la somma di 100.000 lire per realizzare ciascuno un’opera ispirata al concetto e alla pratica del lavoro, chiedendo di inserire nella composizione almeno un esemplare di ciò che egli fabbricava: un mattone refrattario con il logo “V&D”, da riprodurre a proprio piacimento ma senza esagerare nelle dimensioni, per non rendere invadente il messaggio promozionale.
Una trovata irresistibile che coinvolge l’osservatore nel gioco di individuare in quale sezione del quadro sia inserito il mattone, visto che alcuni autori hanno avuto il gusto quasi beffardo di renderlo invisibile a un primo sguardo sommario, spingendo quindi a una ricerca più attenta tra una pennellata e l’altra.
Una delle soluzioni più singolari e perfino narrative è quella adottata da Marcello Boccacci che nell’illustrare La stiratrice alle prese con il lavoro quotidiano…
… piazza il mattoncino con il marchio aziendale sotto il ferro da stiro.
Un modo per andare oltre la consuetudine di un notevole catalogo aziendale, con l’aggiunta di un autoritratto e qualche riga esplicativa da parte di ogni singolo conferitore, facendo comprendere l’attenzione prodromica di Verzocchi per forme di comunicazione evolute.
In questo caso è riuscito a coinvolgere personalità quali Filippo de Pisis, Renato Guttuso, Mario Mafai, Carlo Parmeggiani, Aligi Sassu e molti altri, i quali oggi danno lustro all’esposizione permanente che occupa l’intero piano terra di Palazzo Romagnoli, dove sono state riunite le settanta opere realizzate per l’iniziativa descritta e donate dal filantropo al Comune di Forlì nel 1961.
(Lavoro, di Giuseppe Capogrossi)
L’introduzione è affidata a un video molto esaustivo che riesce a sintetizzare la personalità piena di sfaccettature di Verzocchi, facendo comprendere perfettamente le radici delle virtù che ne hanno fatto un simbolo dell’Italia che funziona, dalla sua sensibilità verso il bello al talento imprenditoriale, dalla visionarietà che gli faceva anticipare i tempi a una spiccatissima vocazione al mecenatismo, dalla competenza in campo artistico all’empatia con cui sapeva relazionarsi con gli altri, a partire dai pittori.
Un’efficace scelta di scatti fotografici tratteggia episodi della sua vita che ne mostrano il dinamismo e le capacità relazionali…
… mentre una teca in pochi centimetri quadrati crea il paradigma di una vita, mostrando i celebri mattoni che fecero la fortuna imprenditoriale di Verzocchi messi a fianco alle lettere con le quali dialogava con gli artisti, a partire dall’immenso Fortunato Depero.
Una targhetta annuncia il titolo dell’esposizione, Il lavoro nella pittura italiana (1950), talmente perfetto da essere apodittico, introducendo così in un allestimento capace di ghermire le emozioni più profonde che possano sposarsi con l’intelletto, conducendo verso una delle esperienze più compatte, logiche, ispirate, istruttive ed entusiasmanti che si possano fare nell’intero ambito della cultura mondiale.
E’ una successione impressionante di sussulti al cuore, un continuo scuotere il capo innanzi a una sequenza di capolavori imprevista quanto folgorante, in grado di scuotere furentemente la sfera emotiva e di scatenare le sinapsi cognitive. Si rimane allibiti davanti alla qualità iconica di ciascuna opera, poiché appare quasi inspiegabile razionalmente come sia potuto accadere che decine di artisti si siano espressi tutti al loro massimo assoluto contemporaneamente, come se ci fosse stato qualcosa di magico o una congiuntura favorevole irripetibile in grado di condurli alla vetta della manifestazione della propria creatività.
Lo si percepisce già dall’accoglienza che viene riservata allo sguardo dell’utente, ghermito immediatamente nella prima stanza da una stupenda opera di Emilio Vedova che dimostra gli infiniti incastri estetici che può offrire un Interno di fabbrica, con rotondità funzionali incastonate tra punte taglienti e sezioni seghettate come minacciose dentature, insufflate dei classici plumbei cromatismi che hanno reso celebre l’artista veneziano.
Dopo secoli di muse ispiratrici individuate negli ambiti poetici, dalla grazia muliebre ai tormenti della condizione umana, dallo stupore della natura alle rappresentazioni storiche, ecco invece apparire qui prorompente la potenza evocativa del lavoro, andando ben oltre le già viste architetture degli opifici per soffermarsi sulla plasticità dello sforzo operaio che Fortunato Depero applica vividamente a Tornio e telaio nel 1949…
… approdando a una nuova sfera creativa in cui si compie l’osmosi tra l’umano e la meccanica, il gesto e l’utensile, il sudore e l’oggetto, la tensione muscolare e la rigidità della materia, il freddo pungente che avviluppa l’atto agricolo all’aperto e il torrido bruciore della metallurgia incandescente.
Emerge in questo modo una nuova categoria in grado di trasmettere urgenza rappresentativa, i Simboli del lavoro tessuti insieme da Gino Severini come labirintico ordito di gabbie lineari che intrappolano sfumati vagiti di colori.
Una teoria di stimoli interpretativi che esonda in pura commozione quando si concentra sulla prossemica dell’operaio, quasi sempre cristallizzato in una postura curva che non è soltanto effetto del lavoro che sta svolgendo, bensì anche e soprattutto metafora del piegarsi alle onde del destino, un abbassare il capo davanti alla necessità del sacrificio per la sopravvivenza, un arrendersi alla crudezza di una natura che pretende sforzi immani per concedere i propri parchi frutti edibili, una passiva accettazione del ruolo di anonimo anello di una catena produttiva, una consapevolezza della mestizia del proprio ruolo sociale, come Gli scaricatori dolenti di Giulio Turcato.
Perfetta enunciazione di tale sottomissione (non soltanto) figurativa è la raffigurazione di Giuseppe Migneco che estremizza la proiezione verso la terra di un Contadino che zappa, talmente prono da ingobbirsi…
… mentre I vangatori di Fausto Pirandello impongono storpiature ossee alle proprie esili figure, al punto da nascondere il volto pudico sotto le larghe falde di cappelli in guisa di istintiva verecondia.
Eppure, malgrado tutta questa negatività quasi inevitabile, nel solco di una ruga che scava un volto si coglie tutta l’immensa dignità dell’abnegazione proletaria…
(El remer [Il fabbricante di remi], di Marco Novati)
… nel tendersi di un bicipite si esalta la forza di volontà…
(Le mietitrici, di Luigi Bartolini)
… negli sguardi concentrati si riscontra l’eccellenza del saper fare artigiano.
(Il lavoro, di Mario Sironi)
E’ come se ogni tela partisse da un (perfino involontario in alcuni casi) senso di riscatto etico degli umili per sublimarsi in trionfale ode della manualità che sorregge ogni aspetto del quotidiano, anche quando il mondo vorrebbe far finta di non vedere i braccianti relegandoli a sagome di ectoplasmi che svolgono La vangatura, come osserva con il consueto acume Ardengo Soffici.
In questo trionfo deontologico della forza fisica che genera supporto vitale, risiede il più potente afflato pedagogico dell’esposizione, poiché infligge una spietata lezione di vita all’intellettuale che si crogiola nella propria presunta superiorità, punendone la vanità e dimostrandogli che è la cultura materiale a fare girare il mondo, fin dalla notte dei tempi, come ricorda la Forgia di Vulcano di Giorgio De Chirico.
In tale modo la visione delle opere impone un nuovo equilibrio nella considerazione generale in cui la laboriosità tangibile si colloca ben sopra alla speculazione evanescente del pensiero, ponendosi alla pari del talento scientifico, come sembra suggerire la stilizzazione di Mani, oggetti, testa… di Felice Casorati, in cui metaforicamente sono le estremità degli arti e sorreggere la sede della mente, come a indicare che la manualità precede la riflessione.
E’ il brodo di coltura ideale della relazione tra scienza e tecnica che sta alla base dei primi vagiti ottocenteschi dei musei industriali, come perfettamente visualizzato nei Costruttori di Carlo Carrà, in cui la squadra lignea del tecnico crea una perfetta linea di congiunzione con l’attrezzo più pesante del manovale, mettendo in dialogo l’alto e il basso con un’armonia che non è soltanto geometrica.
Verzocchi con la sua collezione ha dunque compiuto non soltanto un encomiabile atto di responsabilità sociale d’impresa, bensì anche un gesto di giustizia collettiva, affermando un assioma della musealità legata alle aziende, secondo il quale anche ciò che nasce dal legittimo perseguimento del profitto commerciale individuale può tradursi in arricchimento culturale dell’intera comunità.
Ulteriori ragioni per rendere la visita a questa collezione un atto di formazione imprescindibile per chi ami l’Arte e l’Uomo, possibilmente nella medesima maniera.
Info: http://www.cultura.comune.forli.fc.it/servizi/menu/dinamica.aspx?ID=22011