Osteria Don Abbondio a Forlì, imperdibili piatti romagnoli dimenticati
Un presidio culturale fondamentale del Paese, imprescindibile per definire l’identità collettiva della Romagna: l’Osteria Don Abbondio di piazza G. da Montefeltro 16 a Forlì è un locale decisivo per arricchire la conoscenza delle nostre radici socio-antropologiche e per comprendere come la Memoria unita alla sensibilità odierna possa tradursi in piatti di sconvolgenti bontà, tanto che pasteggiare qui rappresenta una delle esperienze umane e intellettuali più potenti che esistano.
Merito del rigore scientifico, della capacità tecnica e della squisita umanità di Simone Zoli nel condurre un progetto che ha posto Forlì al centro della cultura gastronomica italiana, attraverso una spasmodica e commovente ricerca di piatti dimenticati del territorio che tutti dovrebbero provare almeno una volta nella vita, perché dimostrano come dalla povertà materiale e dalla civiltà del recupero possano scaturire alcune delle pietanze più prelibate del mondo.
Nelle note programmatiche del sito dell’osteria si esplicita la volontà di “offrire un viaggio nella gastronomia romagnola” che tenga conto della collocazione geo-sentimentale del locale, situato “a due passi dalla riviera adriatica e nel mezzo della pianura ai piedi dell’Appennino”, in cui “l’offerta di materie prime è ricca e variegata” mentre “la cucina proposta si basa sui piatti della tradizione romagnola, troppo spesso lasciati nel dimenticatoio”, basati su “materie prime povere e categoricamente stagionali”.
Viene così messa in tavola “una cucina familiare senza fronzoli che mira a far parlare i prodotti di qualità”, soprattutto romagnoli.
In questo modo tutti i piatti trasudano storia e sono veicoli di racconti, narrando perfino le origini del locale stesso, poiché si trova in un luogo di Forlì da tempo vocato alla gastronomia, essendo stato “per moltissimi anni sede dell’Osteria della trippa che fin dall’alba dava ristoro ai lavoratori della notte – all’ombra dell’ex convento di San Domenico, oggi nuovo centro museale e fulcro culturale della città”.
Il modo edibile di celebrare tali origini dell’osteria è proprio la Trippa, servita però in una maniera originale, ovvero fritta, creando una ghiottoneria pazzesca, croccante fuori e tenera me non cedevole dentro, in cui la componente animale sprigiona fantastici sentori selvatici.
Si raggiungono le vette del sublime con i Basotti, il più prodigioso recupero archeo-culinario di Zoli, riguardante la tradizione profonda ed esclusiva della valle dell’Alto Savio che ricade nella provincia di Forlì-Cesena, con un legame secondo alcuni con l’uccisione del maiale. Si tratta di una pasta rustica e spessa, tagliata a listarelle irregolari, cotta dapprima in brodo e poi finita in forno, fino ad assumere i tratti di una sorta di pasticcio rurale.
La versione dell’osteria vi associa un condimento altrettanto caratteristico come la crema di parmigiano, mentre la doppia cottura con il passaggio in forno crea in superficie una patina croccante da perdere la testa.
Un piatto che scatena tutte le emozioni possibili al massimo dell’intensità, dal godimento sensoriale estremo reso da una delle pietanze più esaltanti che esistano sulla Terra, alla suggestione di trovarsi davanti a un’espressione antichissima del cuore di una comunità.
Da manuale gli Strozzapreti, fatti a mano e ben consistenti, i quali con il condimento danno la possibilità di provare la Ciavar, altrimenti detta salsiccia matta, anche in questo caso remota tipicità delle valli romagnole “la cui diffusione e consumo arriva fino a Forlì” come informa Slow Food che l’ha inserita nell’Arca del Gusto che tutela la biodiversità agroalimentare.
La Ciavar è frutto del motto secondo il quale “del maiale non si butta via niente”: infatti per essa vengono usati tutti i tagli meno nobili, frattaglie comprese, “impastate con una concia di sale, pepe, aglio” cui si aggiunge vino Sangiovese (https://www.fondazioneslowfood.com/it/arca-del-gusto-slow-food/ciavar-salsiccia-matta/).
Qui, accostata ai fagioli, crea un capolavoro, un primo piatto davvero clamoroso per potenza sensoriale e complessità organolettica.
Per le carni, entra in campo il titolare del locale Gianluca Pini che si dedica anche all’allevamento d’eccellenza con il suo Podere Maseretto nella vicinissima Predappio, dove i migliori bovini vivono all’aperto in stato di libertà, alimentati in maniera naturale con foraggi coltivati dalla medesima azienda, gestiti in maniera responsabile e oggetto delle massime attenzioni.
L’esito lo si coglie assaggiando la strepitosa tartare di Angus dell’osteria, dall’irresistibile gusto inconfondibile dello stato brado e con le note vegetali dell’alimentazione sana.
Ma non alzatevi da tavola prima di avere assaggiato la golosa Cassata romagnola, interpretazione regionale del classico siciliano.
Va ancora notato che questo è un paradiso per gli amanti del vino, grazie a una ricerca formidabile di perle enoiche, soprattutto tra le piccolissime cantine della zona che producono autentici gioielli.
Come quella di Filippo Manetti, “viticultore in Campiume”, piccola borgata di origine medievale situata a Fognano di Brisighella, da lui acquistata nel 1998, dal cui terroir trae il Gea, un Albana in purezza macerato che si esprime come un orange wine dalle sensazioni di miele d’Asfodelo, papaya essiccata, karkadè e albicocca candita.
Vino da approcciare con viva curiosità, lasciandosi guidare a tutto pasto.
La gestione di Simone Zoli ha ottenuto il risultato di raggiungere e mantenere il successo pur esercitando l’attività con il massimo rigore, perché ha sempre tenuto d’occhio le regole dello storytelling contemporaneo e ha voluto con forza essere inclusivo, creando una struttura dinamica che “non è solo un ristorante, perché non è una trattoria, perché non è solo un wine bar, perché fa chic e non impegna, perché piace a gourmet e riluttanti, perché è un luogo politicamente corretto dove prima o poi passano tutti”.
E’ per questo che qui possono sedere al medesimo tavolo e con la stessa soddisfazione tanto il gourmet radicale quanto il mangiatore ludico, senza che nessuno dei due corra il rischio di sentirsi “un vaso di coccio in mezzo a tanti vasi in ferro” come scriveva Manzoni proprio di don Abbondio.
Abbiamo chiesto a Simone Zoli di spiegarci il senso complessivo di questa realtà così prestigiosa e giustamente celebrata: lo ha fatto nel video che segue.
Info: http://www.osteriadonabbondio.it/