I Custodi delle Vigne dell’Etna, a tutela della magnifica tradizione dei vini della Muntagna
Ci sono diverse aree del mondo talmente seduttive da attrarre nuovi residenti, ma L’Etna ha la peculiarità di fare innamorare di sé persone così sensibili che si immedesimano pienamente nel genius loci fino a diventarne parte loro stessi, pronti ad assumerne i ritmi biologici e le norme antropologiche, tanti da diventare locali quanto i nativi: dimostrazione di tale fenomeno è Mario Paoluzi, un romano capace di trasferirsi sul vulcano più alto d’Europa per produrre vino seguendo rigorosamente la tradizione millenaria del posto nella vocatissima zona di Castiglione di Sicilia, in provincia di Catania.
Con la sua cantina Paoluzi scomoda anche la semantica per spiegare la propria missione, precisando che “custodire vuol dire preservare il territorio, mantenere le tradizioni e rispettare la persona: da questi valori e dall’amore verso una terra meravigliosa come quella Etnea, dove la vite è stata portata dall’uomo più di due millenni fa, nascono i vini dei Custodi, frutto della generosità del caloroso suolo vulcanico e della sua mineralità, del freddo della Muntagna e del sole di Sicilia”.
La sostanza è così descritta: “sane viti di ogni età, sorrette dal loro palo in castagno, che popolano densamente (8000 ceppi per ettaro) impervi terrazzamenti in pietra lavica a secco, sono coltivate in armonia con l’ambiente che le circonda solo con la forza delle mani de I Vigneri, sapienti vignaioli Etnei: in modo naturale, organico, come da centinaia di anni si è sempre fatto sull’Etna, senza prodotti chimici di sintesi, nel rispetto delle persone, del paesaggio e della natura”.
In azienda si avverte il peso di una storia millenaria, quella della “cultura del vino sull’Etna”, così illustrata: “antiche leggende, resoconti di viaggiatori e naturalisti, opere d’arte, poemi e racconti sono testimonianze, sin dai tempi più remoti, della viticoltura sull’Etna; qui il microclima particolarissimo e la fertilità del suolo vulcanico offrono alla vite un’ambientazione ideale”.
Infatti “fin dall’epoca dei siculi, tremila anni fa, la vite ed il vino sono sempre stati al centro della vita degli uomini Etnei e poco è cambiato dall’alba della storia fino al XX secolo, nei gesti e nei modi dei viticoltori: i torchi a leva usati fino a pochi anni fa sembrano uguali a quelli descritti da Catone nel 160 a.C., la coltivazione ad alberello è rimasta immutata per trenta secoli e dappertutto troviamo ancora il sesto d’impianto a quinconce – ogni vite ha uguale distanza da quelle che la circondano – che fu caro a greci e romani”.
Importante che si sottolinei quanto l’attività vitivinicola abbia segnato non soltanto la società etnea ma anche il suo scenario naturale, grazie alla cospicua presenza di vigneti che “occupano più della metà dei terreni e si spingono fino ad altitudini sopra i 1000 metri”, plasmando il paesaggio soprattutto con quelle terrazze in pietra lavica sostenute da muretti a secco iscritti nel 2018 nella lista degli elementi immateriali dichiarati Patrimonio Unesco, strutture ancestrali che ancora oggi “permettono alla vite di arrampicarsi in luoghi sempre più impervi”. Senza dimenticare che perfino la ferrovia Circumetnea venne “costruita per facilitare il trasporto del vino al porto di Riposto: da lì partiva, allo stato sfuso, per tutto l’Europa e il mondo”.
Un paradiso enoico che ha rischiato di scomparire vittima dell’aggressione della filossera ma anche di un iniquo regime fiscale e dell’emigrazione di molti contadini, una memoria salvata concretamente negli ultimi vent’anni dal lavoro “di pochi illuminati come il nostro enologo Salvo Foti ha permesso la rinascita del vino sull’Etna, che sta per conquistare il posto che gli spetta di diritto tra i grandi terroir europei”.
Un territorio dalle potenti peculiarità tali da determinare la qualità delle uve, in cui “colate laviche succedutesi nei millenni hanno lasciato un terreno variabilissimo” e dove “le viti devono lottare per sopravvivere”, con un microclima segnato da variazioni estreme.
Qui “Carricante, Minnella, Grecanico, Malvasia, Visparola per i bianchi, e poi i rossi Nerello Mascalese, Nerello Cappuccio, Alicante sono i vitigni che sull’Etna sono da sempre coltivati: li troviamo solitamente piantati uno accanto all’altro, in vigneti promiscui”, nei quali “la vite è allevata ad alberello, ad alta densità, fino a quasi diecimila piante per ettaro; la cura manuale che i Vigneri riservano ad ogni singola pianta rende necessari pochissimi trattamenti durante l’anno, usando solo zolfo e poltiglia bordolese: vendemmiamo tardi, e solo grappoli d’uva sani e cresciuti naturalmente, per dare vita a grandi vini, veramente Etnei”.
Tutto frutto della sapienza del gruppo di lavoro che il grandissimo Salvo Foti ha chiamato I Vigneri, per ricollegarsi all’esperienza di una Maestranza fondata a Catania nel 1435 per “permettere alle nuove generazioni di apprendere come coltivare le vigne e come produrre vino nel territorio del più alto vulcano d’Europa” (ce ne siamo già occupati qui: https://www.storienogastronomiche.it/i-vigneri-delletna-lunione-dei-contadini-fa-la-forza-del-vino/).
Ed ecco un Consorzio composto da cinque produttori e vecchie vigne, sparse per la Sicilia dall’Etna fino a Caltagirone e Vittoria, uniti dai Vigneri che “sotto la guida di Maurizio Pagano e di Salvo Foti lavorano in vigna”, in cui ogni produttore “mantiene la propria identità, ma comunica la sua adesione alla filosofia comune imbottigliando i suoi vini nella bottiglia dei Vigneri che riporta in rilievo il simbolo del consorzio, quell’alberello che ha le sue radici nel 1435”.
Tra i bianchi, esemplare la tipicità dell’Etna Bianco Ante composto da Carricante (90%) e un saldo di Grecanico e Minnella, dal territoriale bouquet di pera coscia, intensamente minerale e acido, il quale al palato sviluppa cedro, yuzu, mela gelato, fico d’India bianco e una punta di ginepro.
Goloso, dalla beva formidabile.
L’Etna Bianco Aedes BIO nel raccogliere l’eredità organolettica del precedente, trova distinzione dal derivare interamente da uve Carricante, sviluppando così maggiormente note agrumate e sentori floreali.
Dalla formula Nerello Mascalese (80%) e Nerello Cappuccio derivano varie referenze.
L’Etna Rosso Aetneus che accoglie al naso con tutto il corredo di sottobosco, in parte presente anche al gusto insieme a carruba e nocciola.
L’Etna Rosso Pistus Bio, maggiormente fresco e fruttato, il quale mette invece in evidenza l’universo della ciliegia, tra amarena e visciola.
L’Etna Rosato Alnus BIO che manifesta la propria delicatezza con un trionfo di fragola, affiancato da ribes e karkadè.
L’Etna Rosso Riserva Saeculare che introduce nel blend una piccolissima percentuale di Alicante e amplifica l’impronta zuccherina, portando la ciliegia in composta e chiudendo con screziature di liquirizia.
Il Nerello Cappuccio Terre Siciliane Bio punta su questo vitigno raramente proposto in purezza malgrado le sue grandi doti, evidenziate subito da un originale bouquet di confettura di lamponi e con echi balsamici e di viola in fiore, per poi incantare il palato con prugna turca essiccata, fico dottato, susina rossa molto matura, olivello spinoso e radici di liquirizia.
Rotondo, pieno, avvolgente, carnoso, ma con una beva ingentilita da una seducente acidità.
Questi i risultati del progetto di Mario Paoluzi, al quale abbiamo chiesto di approfondire i temi qui trattati davanti al nostro microfono: lo ha fatto nel video seguente.
Info: https://www.icustodi.it/
Distribuzione: https://www.propostavini.com/produttori/produttore/i-custodi-delle-vigne-delletna/