Ristorante Kamastra a Civita (CS), Calabria: fantastico viaggio nella cultura gastronomica arbëresh
La chiamano “cucina “Ka Çifti” ed esprime l’immenso patrimonio culinario dell’affascinante cultura arbëresh che fa riferimento alla civiltà albanese costretta da una diaspora a riparare anche nei nostri territori soprattutto del Meridione dopo il XV secolo, ambientandosi a tal punto da creare una felice osmosi tra le proprie tradizioni e quelle locali: diversi i locali del Sud Italia che ne propongono le ricette, provati anche da noi, ma nessuno ci ha colpito con la potenza del Ristorante Kamastra a Civita in provincia di Cosenza in Calabria, dove ogni piatto si porta dietro una dettagliata antica vicenda ricchissima di implicazioni socio-antropologiche, cui associa sapori di impressionante qualità organolettica, tra i più buoni mai provati.
Merito del massimo rigore e dell’enorme competenza del suo ideatore Enzo Filardi, avvocato e compositore di musica etnica arbëreshë che lo fonda nel luglio 1995 ritenendo “che la cucina può costituire efficace strumento di comunicazione e significativa testimonianza delle proprie origini”, predisponendo una proposta gastronomica “strettamente legata al territorio e rigorosamente fedele alle risorse naturali locali” per giungere alla riscoperta “delle tradizioni culinarie arbëresh, secondo un percorso ben definito che, in un tempo, tende a coniugare gli antichi sapori della terra calabrese e del mondo contadino, con le influenze balcaniche tramandate attraverso la conservazione delle origini etniche del Paese delle Aquile”.
La gestione cita il detto popolare arbëresh “Karnivall ku vajte u n’gule? Hengre lakra me fasule!” (Carnevale, dove ti sei cacciato? Hai mangiato cavoli e fagioli!) per rintracciare le origini della predilezione per pietanze a base di erbette locali, verdure e legumi.
Altri detti arbëresh apodittici sono “Rit gne derk nde shpit, se lagin buzin per gne vit” (Cresci un maiale a casa e ungi la bocca per un anno) che “ritrae la consolidata e ancor mantenuta usanza arbëreshë di ricavare dal maiale, allevato in casa, la variegata ed appetitosa provvista familiare annuale”, quindi quello delle massaie che ancora oggi amano dire con soddisfazione “Jeme bemi Petulla Krustul e Kanalleta” (Stiamo facendo i dolci natalizi Pettole Crustuli e Scalette), memoria vivida di senso dell’ospitalità, rispetto altrui, paste e dolci fatti in casa “dalle mani esperte di mamme e nonne, seguendo vecchie ricette gelosamente custodite ed amorevolmente tramandate”.
Perfino l’aspetto architettonico qui riserva cultura, essendo “tutto di provenienza familiare perché uscito dalle abili mani del capostipite Francesco La Cattiva (Mjesht Franqisku Falignamit 1881-1969), noto maestro ebanista civitese, rende l’ambiente ameno e confidenziale”: effettivamente ci si sente affettuosamente accolti dalle “pareti murarie, pitturate a calce bianca”…
… “da cui si aprono, in corrispondenza degli archi, ovali e misteriose feritoie orlate da mattoni”…
… una rusticità che sa di casa e famiglia, contestualizzata “da originali foto d’epoca, ritraenti aspetti e motivi di vita paesana, cui si aggiungono pezzi di antiquariato locale di grande curiosità”.
La parte gastronomica è un trionfo.
A partire dallo strepitoso pane casereccio che profuma di grano, forno a legna e impasto all’antica, di una fragranza inaudita.
Quindi subito spazio a un capolavoro di livello internazionale, tra le maggiori squisitezze al mondo, il Dromësat, definito “la pasta dei poveri”, con i suoi grumi setacciati e cotti nel sugo con l’origano che lo fanno assimilare al cus-cus.
Sarebbe una ricetta natalizia, ma il gestore è così generoso verso i clienti e tanto desideroso di divulgare la cucina arbëresh che su richiesta è ben disposto a farla provare agli avventori.
Da solo, questo piatto vale già il viaggio, da qualunque parte del pianeta.
Fenomenali anche gli Strangùle me nenezë, ovvero i Cavatelli alla nenesa che è un’erbetta orticacea del Pollino (amaranto) e rappresentava il piatto dei pastori della zona: fa sognare con il suo fresco tocco di clorofilla unito alla sapidità della ricotta.
Ci ha indotto alla commozione quindi il celestiale Kaciq te graza me dafin, il Capretto al tegame all’alloro alla civitese, la cui complessità di sfumature organolettiche porta nel paradiso dei sensi.
Clamoroso anche il Cinghiale alla bracconiera, di una tenerezza sconvolgente quanto la sua golosità, con un grasso pulito e suadente da applausi.
Formidabile anche la carne mista alla griglia, una sincerità di gusto che non sentivamo da tempo, sintomo di bestie allevate bene e in maniera naturale, capaci di mantenere una deliziosa nota selvatica tra pollo (incredibilmente ghiotto), maiale, manzo e salsiccia.
Ma qui perfino le patate di contorno sono fantastiche, cotte alla perfezione per offrire anche una parte croccante.
Gli stimoli intellettuali e sensoriali però non sono finiti qua, perché Civita è anche patria del Piretto o Limetta calabrese che “appartiene alla grande famiglia degli agrumi ed è cugino del limone e del cedro: caratterizzato da un delicato profumo si distingue dall’altro famoso frutto calabrese, il Bergamotto, per la dolcezza e la gentilezza del gusto”.
Nel locale lo si può provare nei dolci o come consigliatissimo sorbetto.
E’ possibile anche portare a casa il Piretto trasformato in tanti modi, dalla marmellata al liquore e alla grappa, approfittando del contiguo Punto Shopping al quale si accede direttamente dal ristorante.
Un’esperienza che ci segnerà per tutta la vita e conferma la convinzione di come soltanto la cucina di tradizione fatta con questa consapevolezza rappresenti un vero contributo culturale: tanta abnegazione associata a studio e capacità divulgativa rendono Kamastra un tempio di istruzione e crescita etica, pur dispensando gioie per il palato che non credevamo fosse possibile provare.
Info: https://www.kamastra.net/