I nettari della distilleria Paolazzi Vittorio in Valle di Cembra (Trento), una storia in ogni goccia
La distilleria Paolazzi Vittorio è già di per sé un mito grazie al plauso universale degli appassionati conquistato in oltre sessant’anni di lavoro eccelso seguendo l’antica tradizione trentina con metodo discontinuo a vapore, creando ancora oggi meraviglie in quel di Faver (Trento), in Valle di Cembra, una realtà così importante che noi stessi ce ne siamo già occupati in un articolo alcuni anni fa (https://www.storienogastronomiche.it/le-grappe-della-tradizione-trentina-della-distilleria-paolazzi-vittorio/): pensavamo di avere sviscerato tutto, ma il prezioso invito di Andrea Girardi della distribuzione Proposta Vini ad approfondire gli aspetti più reconditi delle creazioni di questi distillatori ha condotto alla scoperta entusiasmante di alcuni prodotti dallo sbalorditivo valore narrativo, poiché scaturiti direttamente da storie vere, consuetudini tradizionali e leggende locali.
Come la Grappa Rachele nata “nel periodo del proibizionismo che racchiude fantastici racconti dei nostri nonni e dei nostri padri”, tanto che “ancor oggi nelle caneve (cantine) dello storico borgo di Faver si possono assaporare le sensazioni del passato sentendola nominare”.
“Rachele” era il nome in codice con cui i contrabbandieri chiamavano la grappa per non farsi scoprire e sfuggire così ai controlli dei finanzieri, memoria di un tempo eroico in cui la grappa rappresentava anche sopravvivenza oltre che resistenza culturale.
Scaturita dall’unione delle vinacce di Schiava e Müller Thurgau, ha un fantastico bouquet di fiori di campo e frutta matura, mentre al palato offre una carezza che lascia tracce di miele di Sulla, albicocca essiccata e frutta secca tostata.
Amabile e parecchio ghiotta.
La Grappa di Balasi è dedicata alla produzione vitivinicola gestita dagli abitanti dell’altopiano di Piné definito dall’ufficio turistico che se ne occupa come “immerso in un paesaggio caratterizzato da boschi rigogliosi, specchi lacustri e terrazze di vigneti” a più di 900 metri sul livello del mare.
Un esempio di socialità identitaria contadina legata al mondo del vino e della grappa.
Al naso porta agrumi, ortaggi e selva, in bocca invece melata, tarassaco, ruta, bacche di ginepro e un sottofondo di clorofilla.
Incanta il suo retrogusto amaricante che sfocia in un afflato balsamico, sfoderando una complessità aromatica eccezionale.
Strepitosa poi la narrazione legata all’Amaro Ghimpen Mat, detto anche L’amaro di Pinè dal nome sempre dell’altopiano dal quale provengono erbe di montagna e sottobosco lavorate poi secondo antica ricetta del trisavolo Tommaso Tomasi detto appunto Ghimpen Mat, mago e botanico vissuto tra il 1828 e il 1898.
Il protagonista della storia di questo amaro è proprio lui, ritratto “bello come un Adone, due occhi penetranti, pulito, ordinato, estremamente gentile, aspetto mascolino, un portamento troppo fine per quei luoghi e quei tempi tanto che qualcuno osava attribuirgli tendenze omosessuali” che però la zia Beppina stigmatizzava come “frottole e invidia perché amava mescolarsi con le ragazze giovani, per le quali nutriva particolare simpatia oltre che destare sensualità ed attrazione che lo portavano spesso al centro delle loro attenzioni”. Merito anche di un “carattere molto allegro e mattacchione” come lo definiva zia Gegia dei Moneghi, aggiungendo il suo essere “estremamente generoso, sempre pronto a tirar su il morale a chi fosse depresso: guariva senza compenso chiunque avesse bisogno delle sue cure”.
Il nostro eroe aveva studiato botanica, erboristeria e chimica, ma cimentandosi con quest’ultima “ogni tanto combinava dei guai con i suoi esperimenti: una volta per lo scoppio di un rudimentale alambicco – raccontava la bisnonna – incendiò il granaio, salvato solo per il tempestivo intervento di suo padre che lo punì severamente”.
C’era anche qualche risvolto amaro, poiché non aveva potuto continuare gli studi essendo di famiglia povera e dovendo quindi industriarsi per sbarcare il lunario e magari comprarsi qualche libro per studiare. Ma si consolava con le belle ragazze che lo circondavano tentando di portarlo all’altare, inutilmente, perché lui amava la libertà: da qui la tanta invidia di cui era oggetto e… se volete sapere com’è andata a finire, il commovente resto della storia potete scoprirlo ascoltando le parole di Martino Paolazzi in un video imperdibile che trovate in fondo a questo articolo.
Questo amaro è contrassegnato da una personalità fuori dal comune, a partire dal profumo ficcante di aghi di pino e vegetazione di montagna, per passare a sedurre il gusto con aneto, liquirizia, caramello, carruba, mirtillo ed erbe officinali.
Sprizza freschezza e pulisce il palato a lungo.
Il Bombardino, malgrado le origini lombarde, è diventato un patrimonio della gente trentina e lo sanno bene anche i visitatori che nel periodo freddo incontrano magari nei mercatini di Trento e dintorni degli ambulanti che lo servono caldissimo da consumare in piedi.
Nel caso di Paolazzi è frutto di una ricetta di un tempo “nata sulle Alpi per dare energia e calore nel gelido freddo dell’inverno”, anche se oggi “è un prodotto gustoso e raffinato per tutto l’anno, ottimo riscaldato con l’aggiunta di panna ed una spruzzata di cacao; delicato e piacevole servito freddo con gelati e semifreddi”.
Questa versione del liquore prevede l’unione di uovo e rhum.
Irresistibile la sua cremosità, con l’uovo in evidenza in tutta la sua fragranza magnificamente corroborato dall’apporto alcolico contrassegnato da note dolci capaci di intrecciare frutta essiccata e melata.
Come anticipato, Martino Paolazzi ha raccontato succulenti dettagli di queste emozionanti storie davanti alla nostra telecamera e il video che ne è scaturito potete guardarlo qui di seguito.
Info: https://www.grappapaolazzi.com/
Distribuzione: https://www.propostavini.com/produttori/produttore/paolazzi-vittorio/