Elogio del vino del supermercato
Il vino del supermercato è un vino di serie B? Fino a pochissimo tempo fa era un epiteto oggettivamente meritato. Vini dozzinali, quasi sempre forniti da meri distributori. Nella maggior parte dei casi, vinelli che mai assecondavano la prima regoletta che si insegna alle elementari del buon bere, ovvero che sull’etichetta vi sia scritto “prodotto e imbottigliato da…”, bensì troppo spesso un triste “distribuito da”.
Poi qualcosa è cambiato. La consapevolezza dei consumatori è cresciuta e la grande distribuzione ha dovuto a sua volta far crescere la qualità dell’offerta, illuminante esempio dell’importanza di una domanda che sia sempre più informata ed esigente, anche (e soprattutto) per i prodotti economici.
Così nei mesi più recenti l’aspetto degli espositori dei supermercati è sensibilmente mutato. Anche quando non è dichiarata da cartelli, la disposizione delle bottiglie segue ormai ovunque almeno il criterio della regionalità, quando non addirittura quello della territorialità, quindi con i vini ordinati in base all’appartenenza all’area di produzione e non semplicemente divisi in base al colore e alla fascia di prezzo.
Sintomo più evidente del cambiamento, l’apparire di vini una volta considerati minori o addirittura rari per la diffusione di massa.
E’ così che anche la qualità dell’offerta è cresciuta moltissimo, fino al punto che ormai non è difficile trovare un po’ ovunque buoni vini perfino sotto i 4 Euro.
Una rivoluzione sociale, perché adesso chi non si può permettere di mettere piede in un’enoteca a causa dei costi, non deve più sentirsi un consumatore di livello inferiore, né deve rassegnarsi a bere male.
Anzi, chi compra il vino al supermercato oggi può bere benissimo e fare importanti esperienze di cultura del bere. Con piccola spesa può infatti viaggiare tra i prodotti delle varie regioni, provare vini mai sentiti, affinare gusto e conoscenza, senza svenarsi.
Una vera democratizzazione del gusto, tale che oggi i consumatori normali che acquistano al supermercato non devono più sentirsi figli di un vino minore, né avere complessi di inferiorità verso gli snob della massoneria dei facoltosi cultori del sedicente “grande vino”. Dove di grande c’è soltanto un prezzo ingiustificatamente alto, sovradimensionato a causa di alcuni meccanismi di comunicazione prossimi all’aggiotaggio del palato che drogano il mercato d’élite, sostenendo con forsennata cecità il presunto prestigio a tutti i costi dei vini ad alto prezzo.
I consumatori di vino del supermercato, per loro fortuna, sfuggono a questa follia di nicchia e possono essere loro oggi a snobbare i cultori di costose spremute di legno o di prodotti seriali influenzati dai mercati internazionali in mano a barbari del (buon) gusto.
Che una rivoluzione popolare sia dovuta partire da un simbolo del consumismo come i supermercati, può indurre ironie, ma non ci sarebbe mai stata senza la spinta dal basso della gente sana che non ci sta a essere vittima dell’oligarchia del vino da gioielleria.
Adesso bisogna alzare il tiro: pretendiamo di più da chi vende il vino di base e sarà l’intero mercato a doversi dare una regolata.
La boll(icin)a del vino finanziario è destinata a evaporare e nel bicchiere rimarrà finalmente il vero succo, quello del lavoro dei contadini.