Osteria Al Bianchi: la cucina dei bresciani e il vino cittadino
“I bresciani vanno a mangiare al Bianchi”: suona perentorio come un dogma questo assunto trasmessoci da un collega giornalista, ma la verifica empirica lo ha confermato. Andrebbe aggiunto che un indigeno ci va se vuole mangiare bresciano. Perché al Bianchi si mangia bresciano. Rigorosamente, fieramente bresciano.
E non suoni come un recinto che ne limiti l’espressione culinaria: questa è una cucina che andrebbe tutelata dall’Unesco come gli antichi monumenti della città. Perché antica è la sua storia e monumentale è la capacità di trasmetterla dei Masserdotti padre, figlio e nipote.
Papà Franco lo chiarisce subito quando sotto i baffoni canuti ti porta in tavola i salumi che lui stesso produce a Zone, sopra il lago d’Iseo: dall’allevamento, alla lavorazione della carne, fino a quando viene insaccata, è tutto lavoro delle sue mani prodigiose.
Potete immaginare allora quali profumi e sapori sprigionino pancetta, coppa, speck e salame da lui prodotti alla casalinga.
Nel frattempo il figlio Michele vi avrà portato l’aperitivo tipico bresciano, il pirlo. Non sapete cosa sia? Ve lo spiega proprio lui, realizzandolo davanti ai vostri occhi.
A questo punto, soprattutto se nel frattempo avrete provato i bertagnì di merluzzo fritto, potreste non esservi ancora seduti e sentirvi già appagati: ma siamo soltanto all’inizio.
Se siete qui per la prima volta, il percorso è obbligato. Si comincia con un bis: Malfatti e Casonsei bresciani, entrambi conditi al burro fuso.
Al condimento dei Malfatti si aggiunge la freschezza della salvia, quasi a ingentilire l’impegnativa consistenza dell’impasto: fitto, denso, resiste gentilmente alla pressione dei denti, per poi invadere tutta la bocca di sapienza antica. Vi sfidiamo a non chiudere gli occhi durante la masticazione: un’esperienza mistica.
Siccome il misticismo può sfociare nel proselitismo, abbiamo chiesto ai Masserdotti di diffondere il loro verbo culinario: eccovi così la ricetta dei Malfatti, scritta di loro pugno digitale.
Si passa dal misticismo al limite delle espressioni da invasati quando invece ci si imbatte nei Casoncelli bresciani, con il loro classico ripieno senza carne, bensì di pane raffermo a tocchettoni lavorato con latte e uova, avviluppato da solida pasta tirata a mano.
Come davanti ai grandi misteri, dopo questi due piatti si rimane lì a chiedersi quale sia l’arcano di tanta bontà: Franco e Michele ci hanno accennato la ricetta e notata la nostra curiosità ci guardano sornioni, vorrebbero dire e non dire. Dire cosa? Che l’ultimo recondito segreto è il burro. Sì, il burro di Zone. A nostra memoria, il burro più buono del mondo!
A questo punto, fate gli occhi imploranti a Franco e Michele, come i bambini teneri che ti chiedono con delicata insistenza di esaudire un loro capriccio: pochi istanti di resistenza e uno dei due cederà, portandovi in trionfo un giallo panetto di questo burroso miracolo. Vedrete però che uno di loro vi rimarrà a fianco: perché una volta che avrete iniziato a provare questo burro a crudo, spalmato sul pane, sarete assaliti da un raptus e soltanto l’energico intervento di un Masserdotti potrà impedirvi di finirlo tutto. Resistete alla tentazione delle lacrime: il ricordo di quel burro vi accompagnerà per tutta la vita, mutando in malinconia ogni volta che ne assaggerete un altro qualsiasi.
Si riparte con un altro bis obbligato: manzo all’olio e stracotto di asino.
Il manzo all’olio, cotto in extravergine, è uno dei più importanti piatti identitari di tutto il territorio bresciano: pur nell’apparente semplicità, richiede pazienza e maestria nella preparazione. Ci è capitato di provarlo in un rinomato ristorante stellato e, pur buono, non era neanche pallidamente assimilabile all’eccellenza di quello dei Masserdotti: sembra di mangiare una crema di carne, indescrivibile adeguatamente a parole.
Lo stracotto di asino, cotto a lungo nel vino Curtefranca Rosso della Franciacorta, servito con la polenta, è un piatto rigoroso: i pezzi rimangono fitti e restituiscono il vero sapore di questo tipo di carne. Un gusto molto diverso da quello del pur ottimo tapulone di Borgomanero e in generale del novarese, in cui la carne viene tritata o sfilacciata, comunque ammorbidita.
Abbiamo chiesto di nuovo un regalo ai Masserdotti, rivelarci la ricetta anche di questo piatto: lo hanno fatto…
Anche se non ne potrete più, i gestori vi porteranno la loro mousse di zabaione, servita al bicchierino: pur satolli, non rimandatela indietro, non sapete cosa vi perdereste!
Non ci sono foto o resoconti che possano davvero restituire l’autenticità di questo posto più delle parole vive di chi lo gestisce da anni, affiancato adesso da altre due generazioni di discendenti: Franco Masserdotti.
Mentre vi appuntate l’indirizzo dell’Osteria Al Bianchi, via Gasparo da Salò 32, vi parlavi del vino unico che potrete provare qui…
IL VINO DI BRESCIA: L’INVERNENGA
Sì, avete letto bene, “il vino”: uno solo. Non perché gli altri non valgano, anzi, c’è una carta misurata ma con varie delizie, dalle bollicine della Franciacorta al sottovalutato ma splendido Groppello del Garda in ottime versioni.
Ma se si è qui per mangiare davvero bresciano, si deve bere bresciano. Bresciano nel senso vero e proprio, perché parliamo dell’unico vitigno autoctono di Brescia, l’Invernenga, così intimamente legato alla città da crescere addirittura dentro il perimetro urbano.
Documentato con certezza fin dai primi dell’800 ma forse presente già in epoca romana, così chiamato perché era possibile conservarne l’uva e consumarla nella stagione invernale, i locali garantiscono che questo vitigno a bacca bianca esiste soltanto in un fazzoletto di terra che cinge il castello di Brescia, altri si spingono a sostenere della sua presenza anche intorno alla città, ma poco importa: è un’uva identitaria di una comunità come poche al mondo.
E’ certa invece la limitatissima quantità della produzione, anche perché le sue vigne sono arrivate a un passo dall’essere del tutto abbandonate.
Una produzione talmente limitata che i Masserdotti ne avevano appena finito le ultime bottiglie, quando siamo arrivati. Minacciando di darci fuoco se non ce ne avesse fatto assaggiare almeno un goccio, il buon Michele si è attaccato al telefono e ha scomodato chiunque per trovarne ancora qualche avanzo di cantina.
In men che non si dica, abbiamo visto arrivare trafelata una bella signora in bicicletta, con un sorriso intatto per nulla offuscato dalla sgambata e un cesto di vimini contenente due bottiglie per noi preziose più dell’oro: i due vini realizzati dal Progetto Urbano dell’Associazione Brescia per Passione, uno dei quali è proprio l’agognata Invernenga!
La signora in bicicletta? E’ semplicemente Laura Castelletti, ovvero, il vicesindaco di Brescia (sic!), nonché assessore alla Cultura, Creatività e Innovazione. Non l’abbiamo lasciata andare via prima di raccontarci cosa sia il Progetto Urbano che ha condotto alla produzione di questi vini.
Alle parole del vicesindaco Castelletti, aggiungiamo il racconto di chi questo vino lo fa: “salite in Castello, raggiungete “Torre dei Francesi” e arrivati alla ringhiera, quello che vi trovate sotto il naso sono i sopra citati quattro ettari, mentre alzando il testone vi trovate dinanzi a un piccolo anfiteatro vitato alla base del quale c’è quell’ettaro e mezzo che Andrea Arici io e Nico Danesi abbiamo scelto di prendere in gestione dopo l’esperienza che dal 2004 ci vede vinificare l’Invernenga, un vitigno esclusivamente bresciano a bacca bianca. Il vigneto è composto per il 65% da Invernenga di cui un 70% con piante molto vecchie (alcune davvero vecchissime) allevate a pergola, mentre il restante 30% a cordone speronato di circa dieci anni in prevalenza ancora Invernenga e il restante Chardonnay. Il resto è ancora una vecchia pergola a nebbiolo, marzemino, barbera e schiava, tipiche varietà della fascia prealpina; da questo pezzo di terra nel 2011 abbiamo ricavato poco meno di 6mila bottiglie suddivise nelle due tipologie e dopo un anno, il vino è pronto per essere venduto. Abbiamo realizzato due vini a partecipazione condivisa con l’associazione “Brescia per Passione” la stessa che si occupa con noi della vendemmia e la stessa che con questi vini (con una parte del ricavato) autofinanzierà le proprie attività a favore della città di Brescia e non solo. Le etichette sono state disegnate da Filippo Minelli (uno dei più importanti artisti contemporanei in attività) e dell’ormai moglie Marta Comini e sono bellissime!”.
(Info: www.terrauomocielo.net)
Eccoci infine alla prova. Il Ronco di Collefiorito, grazie all’Invernenga, al palato è talmente originale nel suo mischiare freschezza, acidità e sentori floreali, da rendere unico il bouquet e gradevolissimo il gusto. Di buona struttura, può reggere tutto il pasto, affermando ancora una volta che quando il vino si sposa al cibo del territorio, salta completamente la convenzione degli abbinamenti-tipo bianco col pesce e carne col rosso.
Meno esaltante il blend del rosso Colle del Cidneo, il quale comunque ha la tipica sincerità del vino contadino. Il nome del vino è un omaggio proprio a quel Colle Cidneo lungo il cui versante settentrionale si sviluppa il vigneto urbano di cui abbiamo parlato, certificato come il più grande d’Europa.
Da qualche parte l’Invernenga viene definito un vino “introvabile”: lo sarà per tutti, ma non per l’Osteria al Bianchi! Qualunque desiderio di brescianità enogastronomica voi abbiate, basta chiedere a loro e lo esaudiranno!