Il Libertino di Trento, (gourm)art nouveau dal gusto retrò
Se state seguendo la via della semantica per dare una motivazione al nome di questo ristorante, siete fuori strada. Certo, sarebbe stato affascinante abbarbicarsi tra le accezioni anticamente positive e attualmente negative di un lemma affascinante come “libertino”, ma qui non c’entrano né la liberazione dalla schiavitù né un’invidiabile lussuria.
Il termine sarebbe ispirato dalla corrente artistica che tra fine ‘800 e inizio ‘900 tanto ha influito anche sull’architettura e l’arredo. Ma a noi piace di più lo scatto di fantasia lessicale del gestore Luca Maurina, il quale, da persona di cultura e insieme esperto di vino, suggerisce l’associazione del latino “liber” (che sta per libro) al “tino” nel quale avviene la fermentazione del mosto d’uva.
Sì, è convincente l’unione di un oggetto legato alla cultura letteraria a un altro che simboleggia quella agricola: sono esattamente le due anime del locale. Infatti, appena si entra, prima di essere accolti da profumi e sapori, si viene rapiti dai libri generosamente offerti alla lettura dei clienti, mentre la vista viene sollecitata da oggetti che raccontano storie antiche.
La fascinazione storica ti permea in realtà già prima di farvi ingresso, visto che Il Libertino si trova nel quartiere di Piedicastello, sotto al Doss Trento, uno dei rioni più antichi della città. Nei locali che lo ospitano c’era una volta una rivendita di carbone. Così è quasi naturale che la cucina ti parli di Storia.
La definizione di “ristorante enologico” è una chiara indicazione, merito dalla presenza di Luca Maurina, grande appassionato di vini e sommelier professionista, il quale dispensa perle di saggezza enogastronomiche in sala, mentre ai fornelli sfodera infinita classe Assunta Martignoni, poche parole e fatti concreti, come i veri Maestri della cucina.
Cucina di territorio qui non è uno slogan, ma una filosofia applicata, nei minimi dettagli, perfino nell’acqua che ti servono a tavola, quella Levico “dalle sorgenti trentine” sulla cui bottiglia campeggia il logo della regione.
Pure la parte creativa del menu non si allontana un centimetro dal territorio, anche quando ha pieno sfogo come nel menu dedicato al Trentodoc, consacrato a bollicine sempre più di moda che il locale però celebra con un cuore tradizionale.
Ecco quindi spuntare la tartare di carne salada, carne di manzo salmistrata a crudo, tritata con formaggio Tosela del Primiero, servita con salsa di mela, aceto di mele e olio extravergine del Garda.
La sapida potenza della carne salada si incontra con la speziata cremosità della Tosela, per un abbraccio in cui tu tuffi con entusiasmo.
Non è da meno il resto di questo menu che prevede anche fonduta di Casolét della Val di Sole e strudel di mela con salsa di bollicine trentine.
E’ significativo che tra le specialità della casa figuri la Selezione di formaggi e salumi: non soltanto per il clamoroso giacimento autoctono cui attingono, ma per la cura spasmodica che mettono nella scelta.
La carnosa delizia di luganega e mortandela varrebbe il viaggio a piedi in Trentino, così come la citata carne salada: salumi che non lesinano gusti forti, alta sapidità e uno spiccato profumo di natura introvabile nei prodotti convenzionali.
Tra i formaggi, al Libertino hanno una condivisibile venerazione per il Casolét, meraviglia a latte crudo, fatta magnificamente dal caseificio Turnario di Pejo, ultimo nel suo genere ancora in funzione in Trentino: dal 1935 lavora ancora come una volta i prodotti caseari della tradizione.
Citazione meritata poi anche per il caprino, dalle sorprendenti note di pepe, mentre per il Vezzena occorre gridare la miracolo.
Abbiamo chiesto a Luca Maurina un approfondimento su caratteristiche e peculiarità dei formaggi trentini che ha selezionato: una piccola lezione di cultura casearia.
Mentre aspettate, assaggiate tutti, ma proprio tutti i pani fatti in casa, d’una squisitezza indefinibile…
… poi sulle fette del pane dalla mollica più fitta mettetevi a provare la selezione di eccellente olio d’oliva extravergine del Garda: su tutti, l’Uliva del Frantoio di Riva, erbaceo e piccante, quindi il meni aggressivo 46° Parallelo e il delicato Garda Trentino.
Sarete così pronti per l’identitario Tortel di patate della Val di Non, tortino di patate grattugiate e farina di riso, fritto in olio, stuzzicantemente croccante come non mai. Ad accompagnarlo, la tipica preparazione del cavolo cappuccio ingolosita dal cumino: la spezia muta l’acido in dolce, per una portata di estrema gradevolezza.
Visto che i canederli qui sono obbligatori per legge (e buon senso del gusto), la gestione ha avuto la felice idea di proporli in versione ridotta e in più assaggi: si possono così provare canederlotti al casolét, agli spinaci e ai finferli, verticale che lascia il segno sulle papille gustative.
Se poi volete una storia da raccontare, allora chiamate qualche giorno prima e pregate Luca Maurina di prepararvi gli Osei scampadi, la cui bontà è pari all’ironia del nome, il quale infatti fa riferimento alla salvezza degli uccelli scampati all’uccisione. Da qui la leggenda popolare secondo cui “questo piatto si preparava quando la battuta di caccia era stata infruttuosa e quindi non c’era alcun volatile da mettere in padella” (www.comune.pergine.tn.it).
Sono degli involtini di carne di maiale, con una golosa farcia di pasta di salsiccia aromatizzata, cui viene aggiunta della salvia.
Vengono accompagnati dalla polenta Valsugana di mais spin. Qui si apre un altro fronte di interesse storico, perché è dalla seconda metà del ’600 che viene coltivato il mais per la polenta in Trentino. Lo spin appartiene al gruppo dei mais rostrati ed è un’antica qualità che secondo alcuni sarebbe perfino tra i progenitori di quello ormai famoso di Marano. Il termine spin indica la caratteristica dei chicchi di avere un vertice acuminato che punge.
Dopo questa nostra sintesi, è interessante approfondire con Luca Maurina il racconto della cucina del Libertino.
Per i vini, incatenate Maurina al vostro tavolo e spremetene ogni stilla di sapienza: sommelier rinomato, ha creato una cantina di altissimo pregio, dove alle inevitabili bottiglie chic ha affiancato una maniacale ricerca di vini locali.
Consigliamo vivamente di propendere per questa seconda categoria, perché tra monti e valli la provincia di Trento garantisce sorprese a ripetizione. Vale per tutti i tipi di vino, bianchi e rossi, ma non per i rosati, banditi per ragioni psicologiche: ricordano il vino che si faceva nel periodo della povertà diffusa, quindi oggi vengono rifiutati. Un fenomeno di fobia sociale molto diffuso in tutta Italia, dove ogni territorio ha il proprio tabù della memoria agroalimentare.
Per fortuna non viene rifiutato invece il Lambrusco a foglia frastagliata, uno dei vitigni veramente autoctoni del Trentino: è una delizia, peccato che nella versione di Vallaron di Avio abbiamo inopinatamente deciso di esagerare con il legno.
Un controsenso che non smetteremo mai di stigmatizzare. Se si sceglie un vino da un’uva autoctona in purezza, lo si fa anche perché si vuole provare un gusto inconsueto, rispetto a quello dei vitigni fin troppo noti. Ma se quel vino autoctono viene tenuto (troppo) nelle barrique, si riempirà così tanto di note di legno da non rendere più apprezzabili la caratteristiche organolettiche originali dell’uva: a questo punto è inutile bere un autoctono, tanto vale rivolgersi a un vitigno standard a larga diffusione.
Lo ribadiamo: I VINI DA VITIGNI AUTOCTONI RARI NON ANDREBBERO MAI MATURATI IN LEGNO, perché corrisponde a un vero eno-cidio: se proprio non se ne vuole fare a meno, si auspica che l’affinamento, comunque breve, avvenga in botti grandi, magari non nuove.
E’ ovvio che questo Lambrusco a foglia frastagliata di Vallaron di Avio è comunque un vino che dà grande soddisfazione, ma non siamo riusciti a immaginare cosa possa esprimere, anche nel suo piccolo, questa uva secolare.
Altro nome del Lambrusco a foglia frastagliata è Enantio, “un vitigno di origini assai antiche e gli studi hanno confermato la sua origine proprio nella Vallagarina meridionale” come spiegano dalle Strade del Vino del Trentino: “con il riconoscimento della DOC, ha assunto il nome di Enantio grazie a Plinio che già nel I secolo d.C. descriveva quest’uva come oenanthium. È il vitigno che più si avvicina alla Vitis silvestris ovvero alla vite selvatica che si può trovare talvolta nei boschi”.
Lo abbiamo provato nella versione di Bongiovanni che con legno invece non esagera, mettendo questo nettare in botti di rovere da 550 litri per un anno e proseguendo l’affinamento in bottiglia per otto-dieci mesi. Il risultato è tanto pepe al naso, grande consistenza e perfetto equilibrio.
Interessanti le note con cui Lorenzo Bongiovanni, il quale si definisce con l’orgoglio della semplicità “viticoltore”, parla di questo vino: “si scrive Enantio ma si legge alla latina Enanzio, vitigno importante e storico, ha forti legami filogenetici con le viti selvatiche trovate nei boschi della valle. Alla fine dell’800 inizio ’900 con l’arrivo della fillossera che distrusse gran parte della viticoltura europea, l’Enantio resistette a tale parassita continuando la sua vita produttiva”.
Prosegue Bongiovanni: “Una vite rustica e longeva, in azienda è rimasto un vigneto con vecchie vigne, alcune hanno 70 – 80 anni impiantate da mio nonno Vito, tutte con ceppi a piede franco cioè non innestate, che ho deciso di recuperare credendo nella potenzialità della vigna e del vino che si può ottenere e al fatto di essere un pezzo di storia della zona e della mia famiglia. Molto coltivato fino agli anni 70 ma poco conosciuto perché commercializzato come vino della Valdadige rosso, da qualche anno ho cercato di produrre uve con caratteristiche ben precise per un vino da ricordare, sono vecchie vigne ma resistenti a malattie e parassiti più delle altre, quindi limito i trattamenti antiparassitari ed intervengo manualmente per un buon controllo della vegetazione che ne facilita l’ottimale maturazione dell’uva”. L’esito è un vino speciale, in cui si ritrova neo bicchiere la nobiltà della cultura contadina.
Il fine pasto trentino pretende la grappa e volentieri non ci sottraiamo a questo amabile diktat.
Nel locale fanno sfoggio di sé le inarrivabili grappe di Pojer & Sandri, ma conoscendole già e avendocele tutte a casa, come ogni italiano che si rispetti dovrebbe, decidiamo di avventurarci in qualche scoperta.
Rimanendo in ambito territoriale, optiamo per una grappa di Rebo di Giovanni Poli, omaggio distillato a un’invenzione enologica dell’Istituto Agrario di San Michele all’Adige, frutto dell’ibridazione di Teroldego e Merlot. La grappa ne restituisce la complessità non pretenziosa.
Se avevate bisogno di una ragione in più per visitare la città di Trento, dopo aver saputo dell’esistenza di questo locale dovreste correre a fare i biglietti.
Info: www.ristoranteillibertino.com