Genova, città Michelin free: niente stelle, per fortuna, ma un’intera galassia di sapori
Fortunata quella città che non ha bisogno di avere stellati per vantare una grande ristorazione. La città è Genova, unica metropoli italiana bonificata dalla iattura delle stelle della guida Michelin: segno della civiltà gastronomica locale che non si piega a violare la tradizione per compiacere gli snobismi dei critici. E pensare che per qualcuno questo sarebbe segno di uno scarso livello della ristorazione, mentre è l’esatto contrario: a Genova se ne fregano di svilire la memoria culinaria per avere al massimo tre stelle di carta, preferiscono con fierezza viaggiare in un’intera galassia di sapori fatta di Storia e semplicità.
E’ come se i ristoratori genovesi dicessero quotidianamente “lasciateci stare” ai redattori delle guide chic alla ricerca del nulla transitorio della presunta alta cucina che in realtà è un’accozzaglia di esibizionismi modaioli per palati annoiati.
Un ammorbamento culturale che non ha attecchito qui, perché poche città in Italia tutelano la propria gastronomia storica come accade a Genova: se a Milano ormai fai fatica a trovare una sola pietanza lombarda nelle carte dei ristoranti, nel capoluogo ligure invece tutti i locali offrono un ricco ventaglio di piatti della tradizione.
Ad eccezione di qualche ristorante che vorrebbe essere chic e per questo snobba la propria identità territoriale, ma con risultati sconfortanti. Come accade al Capo Santa Chiara, per esempio: approdo dell’alta borghesia cittadina che non vuole sporcarsi con i carrugi, consigliatoci infatti da un genovese benestante, alla prova si è rivelato parecchio fragile. Il loro tentativo di fare la cosiddetta cucina per gourmet è decisamente velleitario: fa perfino sorridere un menu che si apre con una pietanza chiamata “Bon Bon di branzino” e non è una battuta. Pentiti già all’atto della lettura del menu, siamo usciti prima possibile, dopo aver consumato in fretta e furia – giusto per cortesia – un solo piatto che non ha lasciato traccia di sé.
Allo Zeffirino invece non ci siamo nemmeno seduti al tavolo: il suo logo sarà pure presente come pubblicità sulle ricevute dei taxi di Genova, ma se leggi il menu del locale non ti sembra nemmeno di essere in questa città. Quasi nessuna traccia della tradizione genovese. Abbiamo studiato il menu in piedi, all’ingresso, senza nemmeno sederci, insospettiti da sfarzi retrò e arredi di decadente opulenza che nulla hanno a che fare con la gastronomia. Alla domanda di cosa ci fosse di tradizionale in carta, abbiamo visto i camerieri arrampicarsi sugli specchi dorati, esibendo tanta irritata supponenza e poca competenza, visto che hanno manifestato di non conoscere quali siano i piatti della tradizione ligure. Sconcertati, abbiamo deciso di soprassedere, lasciandoci alle spalle il locale e i nervosi brontolii dei camerieri. Allo Zeffirino si autodefiniscono “punto di riferimento per il jet-set internazionale”, nonché un “ristorante di classe”, forse riferendosi a quella sociale elevatissima dei suoi clienti, tra cui esibiscono perfino un papa: sarà, ma la cucina genovese è da ben altra parte, per fortuna.
Com’è allora la vera cucina genovese? Ce lo spiega un ristoratore doc di Genova puro e duro come Maurizio Tavella, uno dai modi schietti come la sua cucina che i clienti li prende per la gola e non per altre parti del corpo, intransigente in materia di tradizione e genovesità.