Specialmente… a Firenze: dove mangiare tipico
La cucina tipica a Firenze? Sulle strade meno battute…
Dopo Venezia, maglia nera della ristorazione di massa in Italia, Firenze, a pari merito con Roma, è la città a più alto rischio di delusione per gli amanti delle tradizioni gastronomiche. Eppure apparentemente sembrerebbe il contrario. Quasi tutti i ristoranti strombazzano piatti tipici locali e fanno sfoggio di elementi iconografici dei soliti stereotipi toscani: così è immancabile da una parte l’esibizione del solito gran tocco di carne per la bistecca alla fiorentina, dall’altra del fiaschetto impagliato del Chianti sfuso.
Dietro questo richiamo per allocchi però spesso si nascondono materie prime dozzinali, menù onnicomprensivi per pascere l’ignoranza alimentare dei turisti pigri, oppure ristoranti chic a prezzi sconsiderati e ingiustificati che millantano aderenze alla tradizione con la stessa oleografia degli americani quando girano un film sull’Italia, per finire con trascurabili locali che ricorrono a un giovanilistico international sounding per agganciare ignari studenti sperduti.
La ristorazione fiorentina quindi vive i problemi di tutte le città che devono fare cassa con i turisti da gregge pastorizio, tra menu tutto compreso e gastronomia da cartolina.
E’ soltanto allontanandosi da tutto questo che si può davvero godere dell’autentica cucina fiorentina.
In città ci sono ristoratori sani, onesti e coraggiosi che ogni giorno lottano per offrire i veri piatti della tradizione, senza scorciatoie né furberie. Devono faticare il triplo, perché costretti a spiegare la propria diversità a chi non ha tempo o voglia di capire cosa gli mettono nel piatto.
Ma è un dovere civico e un obbligo morale costringere gli stranieri e i turisti distratti a rispettare le nostre tradizioni gastronomiche e imparare a gustarle nel giusto modo, punendo i locali dozzinali con tanto di insopportabili buttadentro e premiando invece i cuochi che promuovono la Storia della gastronomia locale.
Non si tratta di fuffa da intellettuali del cibo, perché la medesima esigenza è avvertita dai ristoratori illuminati di Firenze, per i quali è un dato oggettivo che la cucina fiorentina sia stata stravolta dal turismo acritico e peggiorata dai clienti non consapevoli.
Ascoltate cosa dice in merito un oste puro e duro come Nicola Schioppo, titolare dell’Osteria Cipolla Rossa, tempio culinario di Firenze.
Se avete visto l’intervista a Nicola Schioppo, capirete perché abbiamo preferito il suo ristorante a quelli di lusso. Infatti ci avevano invitati nel più famoso stellato della città, per il quale si stracciano le vesti tanto i gourmet danarosi quanto i gastrofighetti del mangiar lento, ma abbiamo rifiutato con decisione. E’ bastato dare uno sguardo al menu di questa presunta istituzione della ristorazione fiorentina per essere colti da desolazione: una sostanziale offerta alla storia gastronomica della città, tra inutili pseudo-invenzioni e sciccherie culinarie risibili. Per non parlare di una carta dei vini che soltanto uno snob senza vero amore per il nettare d’uva potrebbe apprezzare, uno di quelli che cercano le annate come per i francobolli, anziché puntare alla sincerità del lavoro di un contadino in vigna. Il suo inserimento al top in una guida da evitare conferma la sua totale mancanza di elementi di interesse per chi ama davvero la cucina.
Soprattutto quella fiorentina che è poverissima e contadina, tanto da risultare offensivo servirla tra arredi di lusso e pretendere che la si paghi a peso d’oro. Meglio fare un giro al mercato centrale di San Lorenzo, in via dell’Ariento, per comprendere quanto sia semplice e popolare la cucina di questa città.
Spazio allora a trattorie frugali e osterie col tavolaccio comune, cucine democratiche ed economiche dove la bontà del cibo fa impazzire di gioia.
Ma soprattutto preparatevi a viverla per strada la gastronomia di Firenze, perché è tra le città italiane con la maggiore diffusione dello street food. Qui è talmente ricca l’offerta di cibo di strada che Firenze può rivaleggiare a testa alta perfino con campioni del genere come Palermo, Napoli e Genova.
Eppure ci è capitato di leggere commenti sulla Rete di utenti che lamentano la decadenza quanto meno quantitativa del fenomeno dei trippai, come questo: “che tristezza , una diecina di nomi e la lista dei trippai a Firenze è quasi finita, nella mia bambinezza (meglio fanciullezza?) dicesi che ce n’erano più di duecento. Tanti li ricordo, allora s’andava con la fidanzata a cenare prima del cinema, non erano ancora state inventate le migliaia di pizzerie i ristorantini etnici i Mc Donald’s (vade retro) e fondamentalmente la disponibilità degli euri”. Lire in tasca e poche, pochissime. Com’era romantica la fermata dal trippaio ante cinema…” (www.gazzettagastronomica.it).
Capiamo questa nostalgia, ma se è scemata la quantità, per fortuna c’è ancora a Firenze la qualità di chi fa il trippaio come una volta. Così come c’è chi fa il vinaio come un tempo.
Purtroppo anche le guide più illuminate prendono cantone in questo scivoloso ambito. Ne è dimostrazione il caso dei Fratellini di via dei Cimatori: letta la loro carta dei panini, abbiamo girato le spalle e siamo andati via. Non una sola preparazione davvero tradizionale: tutto uno sfoggio di combinazioni di ingredienti certamente golose, ma fatte affastellando prodotti pensando soltanto alla gola e non alla testa, senza un percorso culturale degno di una gastronomia storica come quella fiorentina.
Locale buono per programmi televisivi sbrigativi, mentre è del tutto incomprensibile e perfino fuorviante per i lettori l’inserimento nella guida di Slow Food, anche se scopriremo fra poco che non è l’unico scivolone fiorentino dei suoi solitamente attenti redattori.
Meglio allora seguirci in questo Speciale per avere un quadro di quali posti evitare e di quali provare necessariamente a Firenze. Perché la tutela dei beni culturali passa anche da noi, con le nostre scelte alimentari.
L’Antico Trippaio, a Firenze c’è trippa per turisti… e telecamere
Sembra paradossale, ma a Firenze può anche accadere che un piatto rifiutato dai gastrofighetti imperanti possa invece diventare talmente trendy da attirare le telecamere dei programmi televisivi, con i danni che ne conseguono.
Lo sdoganamento dello street food a opera delle tv è ovviamente interessato e a senso unico: si mostrano piatti grassi e unti nonché osti alla buona giusto per fare sensazionalismo post-folclorostico da dare in pasto agli spettatori annoiati. Così, dopo essere stato bistrattato per decenni, anche il mondo del cibo di strada ha adesso le sue star. Con tutte le conseguenze del caso. Ovvero che magari si finisca col prestare più attenzione all’immagine che al proprio lavoro quotidiano.
A Firenze la star dei trippai è L’Antico Trippaio, ben consapevole della celebrità acquisita: quando lo abbiamo avvicinato chiedendogli educatamente se gli desse fastidio essere ripreso al lavoro, la risposta è stata “tanto ci sono abituato…”.
Ecco allora come si svolge il lavoro al chiosco della celebrity dell’Antico Trippaio.
E’ certamente il più mediatico dei trippai di Firenze, i quali, ricordiamolo, sarebbero dei veri operatori dello street food, visto che effettuano la mescita per mezzo di strutture ambulanti, davvero direttamente sulla strada.
Sorprende quindi la cura del sito dell’Antico Trippaio, all’indirizzo www.anticotrippaio.com, dove ci informa che in piazza de’ Cimatori “da più di ottant’anni dà da mangiare a fiorentini e turisti”, offrendo “trippa, lampredotto, poppa, matrice, porchetta, salumi, salsicce di cinghiale”.
Si spinge anche in spiegazioni approfondite: “nati come cibo per artigiani e operai, trippa e lampredotto sono da decenni parte della tradizione fiorentina. Vediamo come si gustano. La trippa è la parte dell’apparato digerente del bovino che si trova tra l’esofago e lo stomaco. Si cucina in molti modi, anche se a Firenze la ricetta tipica prevede di affogarla in un succulento bagno di pomodoro. Il lampredotto è una delle parti dello stomaco dei bovini, quella più compatta e magra. La carne viene bollita in brodo con odori e pomodoro, tagliata finemente e messa in un panino. Sale, pepe, peperoncino e salsa verde completano l’opera”.
Alla prova dei fatti, il loro lampredotto è di alta qualità e cotto alla perfezione. Lo abbiamo provato nella versione con salsa rossa piccante: buono, senza dubbio, ma qualcosa non torna, man mano che lo mangi: emerge chiaramente infatti che si tratta di un gusto ruffiano, con l’intingolo preparato appositamente per soddisfare un palato globalizzato, gradevole per tutte le provenienze geografiche. La conferma arriva dalla constatazione empirica: siamo infatti circondati quasi esclusivamente da stranieri, perché i fiorentini radicali preferiscono altri trippai.
Qualcos’altro ancora non ci ha convinti. Che, al contrario di altri suoi colleghi, non ci abbia spiegato che il vero modo di gustare il lampredotto è senza alcuna salsa: è in quel modo che ne carpisci realmente il sapore e la qualità, oltre alla sapienza di chi lo prepara.
Ci siamo sentiti trattati da turisti e non da appassionati di cucina: una frettolosità e mancanza di informazioni che ci ha dato la sensazione di un qualsiasi McDonald’s e non di un trippaio tradizionale.
Questo ci appare un difetto grave, secondo noi alimentato proprio dalla eccessiva fortuna mediatica di cui gode. Sorprende molto quindi, in negativo, il suo inserimento nella guida di Slow Food, la quale dovrebbe essere attenta agli esercenti autentici e frugali e meno a quelli smaccatamente turistici.
La conferma di tutte le nostre considerazioni arriva proprio dallo stesso sito dell’Antico Trippaio, come se fosse una clamorosa autoconfessione: non c’è infatti una sola foto del loro chiosco in cui non siano protagonisti dei turisti orientali, evidente ammissione indiretta di essere un posto per gitanti stranieri.
Tutto legittimo, ci mancherebbe, ma per chi ama l’autentica tradizione pura e dura dei trippai, bisogna rivolgersi altrove…
Il Trippaio del Porcellino, il migliore a Firenze da più di 100 anni
La più pura, radicale, esaltante espressione del cibo di strada fiorentino: il Trippaio del Porcellino è la pietra angolare di questa antica tradizione cittadina.
E’ li da oltre un secolo, dato oggettivo che lo ha fatto entrare di diritto nel novero degli Esercizi Storici Fiorentini e Tradizionali, come si legge sul sito dell’Ufficio Promozione Economica del Comune di Firenze che si occupa dell’apposito Albo: “ubicato nella caratteristica Piazza del Mercato Nuovo, il Trippaio del Porcellino inizia la propria attività a fine ’800 inizi ’900. L’originario veicolo utilizzato per la vendita di lampredotto e trippa è stato sostituito nel 1994 con l’attuale chiosco per adeguarsi alle normative di legge. L’attività, tramandata da generazione in generazione, è attualmente gestita da Nencioni Orazio che mantiene viva la tradizione cucinando oggi come allora i caratteristici piatti di lampredotto e trippa nel rispetto delle ricette originali” (www.esercizistorici.it).
Proprio il gestore Orazio Nencioni ci è sembrato la prima ragione della qualità di questo chiosco: schietto, sagace, radicale, è intransigente nel difendere questa tradizione che lui rappresenta meglio di chiunque altro in città. Per esempio spiegandoti che il lampredotto si deve mangiare senza alcuna salsa, perché altrimenti se ne viola il sapore. Scuote la testa quando gli diciamo dei trippai per turisti che invece lo affogano in salse furbe, becera abitudine che lui ovviamente stigmatizza.
Questa purezza rude, fa di Nencioni un personaggio fondamentale di tutta la gastronomia fiorentina, da cui non si può prescindere.
Blandito anche lui dalle televisioni, malgrado l’apparizione in una celebre trasmissione, non si è fatto cambiare di una virgola. Anzi, il suo rigore ha messo a nudo la superficialità dei programmi tv che vorrebbero involontariamente ridicolizzare lo street food, attraverso il solito frusto espediente della gara sempre e comunque.
Ciò che finisce in un panino del Trippaio del Porcellino dimostra come sia vero che l’inflessibilità culinaria si trasformi sempre in bontà superiore.
Il suo panino al lampredotto è fatto secondo la più fedele applicazione dei dettami della tradizione. Risultato, è il più buono in assoluto in tutta Firenze. Parliamo di un’esperienza metafisica tra le più alte della gastronomia nazionale. Lo addenti e ti sembra di masticare il paradiso laico.
Tutto merito della materia prima e del brodo di cottura, in cui viene intinta la metà superiore del pane. Non siamo riusciti a resistere alla tentazione di un bis: la bontà sconcertante di questo panino ci ha fatto rimettere in fila per prenderne un altro, pur sapendo che ci sarebbe costato un quarto d’ora d’attesa. Ma per una simile meraviglia, non c’è prezzo.
Ecco come Nencioni dà vita al suo celebre panino al lampredotto.
A tutto ciò si aggiunga che il suo vino sfuso è il migliore provato a Firenze, per giustificare un viaggio in città anche soltanto per il Trippaio del Porcellino.
Da’ Vinattieri, la secolare Arte della gastronomia popolare a Firenze
Era il 1288 quando i vinattieri si separarono da fornai e albergatori per creare una propria autonoma corporazione, ovvero una di quelle associazioni sorte in epoca medievale per disciplinare l’attività di una determinata categoria commerciale o professionale.
Queste corporazioni delle arti e mestieri ebbero un ruolo importante nella crescita della ricchezza e del prestigio di Firenze.
L’Arte dei Vinattieri rientrava nel novero di quelle minori, insieme a gran parte delle attività artigianali, ma era così fiera e florida da dotarsi di un proprio simbolo.
Vari studi infatti ricordano quanto fossero diffusi in città i banchi per la mescita del vino, venduto in fiaschi simili a quelli impagliati che ancora oggi si trovano nelle trattorie fiorentine.
E’ proprio dalla denominazione di questa corporazione che ha preso origine il cognome Vinattieri, molto comune in Toscana e ancor di più a Firenze e dintorni.
In via Santa Margherita 4r a Firenze c’è chi ancora, fin dal nome, prosegue questa tradizione di enogastronomia popolare, viva in città da oltre settecento anni: Da’ Vinattieri.
Oggi come allora, i fiorentini ci vanno per bere un bicchiere di onesto vino sfuso, mentre i turisti attingono alla variegata offerta culinaria che spazia tra piatti caldi e freddi della tradizione.
Ai Vinattieri si fanno vanto di essere uno dei due veri trippai al chiuso della città, ma le ragioni per venire a mangiare qui sono altre.
Innanzi tutto, la schiacciata, da non confondersi con l’omonimo dolce cittadino. Si tratta di una pizza bianca, parente stretta di quella romana e della più semplice delle focacce genovesi. Meno croccante della romana (solitamente più sottile) e meno unta della ligure, la peculiarità di questa schiacciata è nella ricca consistenza dell’impasto, più rustico dei parenti citati.
Tante le farciture proposte, ma se volete davvero cogliere l’essenza di questa piccola grande tradizione fiorentina, ordinate una semplice schiacciata con la finocchiona: come nelle grandi storie d’amore, sembrano nati per stare insieme. Altra variante, riempirla di lardo toscano: da svenire.
La specialità più golosa è però rappresentata dai coccoli, gocce di pasta di pane fritta, sulle cui origini circolano diverse versioni: c’è chi li vuole tradizione prossima alla scomparsa, chi invece aperitivo di certi ristoranti della città, altri ancora un semplice spuntino da panificio. Di certo allora c’è la loro pazzesca bontà e che vanno consumati caldi. Basta avvolgerli con un velo di prosciutto toscano per farti mugugnare di piacere, se poi all’interno sarà stato inserito dello stracchino che nel frattempo si sarà fuso, allora sarà un’esplosione di gusto.
Ma gli attentati alla dieta non sono finiti. Impossibile resistere infatti al richiamo dei panzerotti fritti farciti con tartufo e pecorino: semplicemente da impazzire. Ma non scherzano neanche quelli alla salsiccia che qui definiscono “caramelle”.
Tutto ciò basterebbe a dare grande fascino a questo localino, ma occorre aggiungere la posizione felice (a due passi dal Duomo e dalla casa museo di Dante), l’estrema gentilezza di chi lo gestisce e la particolare apertura sulla strada dalla quale vengono serviti i pasti caldi come trippa, lampredotto, stracotto di guancia, pappa al pomodoro.
Se poi doveste avere la fortuna di capitare in orario di scarsa affluenza, potreste rivivere le atmosfere dei vecchi vinattieri, magari in compagnia di qualche signore ebbro di Chianti della casa.
Tra un cliente e l’altro, i gestori hanno trovato il tempo di illustrarci le loro proposte.
Le Fiaschetterie di Firenze: da Nuvoli, la semplicità di un tempo
Le fiaschetterie erano una nobile e diffusa tradizione fiorentina, prima che buona parte della ristorazione cittadina impazzisse, alla sconsiderata ricerca di inutili stelle(tte) da appuntarsi sull’orgoglio o di allocchi stranieri da infilzare con conti più salati delle banali pietanze che servono.
E’ doloroso leggere nelle storie di alcuni ristoranti della città che un tempo erano delle semplici fiaschetterie mentre oggi si vantano di essere ristoranti chic. Lo chiamano progresso, invece è una volgare involuzione che tradisce lo spirito culinario della città. Locali che hanno rinnegato la propria origine e non hanno timore di scadere nel ridicolo, quando dicono di portare ancora avanti la tradizione locale (a caro prezzo per i clienti, of course) ma poi ti servono la bresaola, tanto gli incolti a cui puntano cosa ne sanno di dove si trovi la Valtellina da cui proviene quel salume.
Anche per questo commuovono le fiaschetterie autentiche rimaste in città, vestigia importanti quanto i monumenti storici per raccontare la società fiorentina. Sono luoghi di resistenza umana. Templi della memoria.
Una memoria che parla delle fiaschetterie cittadine come botteghe in cui consumare o anche semplicemente acquistare il vino come i formaggi e i salumi, o perfino il paté per i crostini.
Esattamente come accade ancora oggi da Nuvoli. Rannicchiato in piazza dell’Olio al civico 15, è un budello che ti inghiotte dall’angusto ingresso e ti risucchia nel ventre di Firenze, anche metaforicamente. Le due salette per il ristoro si trovano infatti nel sotterraneo, praticamente alla stessa profondità e in perfetto asse con la cripta di Santa Reparata, primo antichissimo duomo della città, da cui le dividono pochi metri e una manciata di secoli. Di là, una Cattedrale dello Spirito, di qua, un tempio del piacere gastronomico, come se le due anime storiche della città, la religiosa e quella laica, si guardassero dritto negli occhi ma a dovuta distanza.
I crostini, si diceva. Partenza obbligata di un pasto fiorentino seduto che si rispetti, sono i più autentici che si possano trovare in città. In primo luogo, perché i fegatini sono fatti in casa secondo l’antica ricetta della nonna di uno dei gestori.
Ma soprattutto perché qui sono ben felici se glieli chiedete da portar via, a patto che li prenotiate prima. Sono i più buoni provati in tutta Firenze: per originalità del gusto, nulla di paragonabile. Già all’ingresso nel palato si avvinghiano alla lingua con la loro potenza, spargendo un sapore rustico la cui persistenza è ben lunga.
Suggeriamo di accompagnare i crostini, così come tutti gli antipasti, con il buon Chianti della casa, prima di sbizzarrirvi con una carta dei vini per fortuna priva di esibizionismo enciclopedico, bensì frutto di attenta ricerca territoriale, radicalmente orientata su tutte le espressioni della Toscana enoica.
Il Chianti scaraffato da Nuvoli è giovane e fresco, perfetto per non disturbare il loro trionfo di salumi. A partire da quel miracolo chiamato Pocchia, ovvero la capocchia del maiale tradotta in insaccato: il potente sentore di selvatico annuncia la sua carne fitta e poco sapida, mandando in visibilio. Vi avvertiamo, non è un salume ruffiano, anzi, possono apprezzarlo soltanto i veri intenditori, oppure le anime sensibili in grado di avvertirne la schiettezza contadina.
La sbriciolona è un classico, qui nella versione perfetta, con la sua spiccata aromaticità dovuta all’imponente apporto del finocchietto.
Immancabile il passaggio dai pecorini toscani. Quello fresco è semplicemente ottimo, mentre lo stagionato è strepitoso.
Due i piatti che si devono assolutamente provare in questo locale.
Innanzi tutto, la ribollita, perché la fanno rustica come da vera tradizione, mica ingentilita fino all’anonimato come in troppi ristoranti fiorentini. E’ talmente buona da farti perfino sentire il profumo degli orti di provenienza della materia prima.
Si accompagna perfettamente con questo piatto la freschezza del Chianti Montebetti, con il riconoscibile apporto aromatico del Colorino, uva autoctona che meriterebbe ben altra considerazione da parte dei vignaioli toscani, i quali la usano per questo blend invece di puntare sulla sua vinificazione in purezza. Il Montebetti scivola lieve come i pendii delle colline toscane in cui viene prodotto, fino a quando si fissa in gola generando felicità.
Altro must, la trippa, rossa, come pretende la ricetta locale. Cremosa da non credere, magnificamente equilibrata, è tra le più buone versioni di trippa di tutta Italia.
Per una pietanza così ricca, necessita l’imponenza del Chianti Classico La Vedemmia di Dievole: il 2010 è austero e carico, con un forte sentore di legno malgrado la lavorazione non esageri con le barrique, ma stemperato dai profumi di frutta rossa.
In chiusura, una vera sorpresa: i cantucci più buoni mai mangiati. Sono morbidi e freschissimi, contrariamente alla convenzione che li vuole come biscotti da inzuppare, infatti non avvertirete l’esigenza di affogarli nel vin santo, azione sconsigliata se volete godervi il loro profumo suadente.
E’ in questo modo che si arriva alla fine del pasto, dopo avere trascorso magari un’ora e mezza fuori dal mondo, ma dentro il nucleo autentico di Firenze, tra mura all’antica e tavoli scarni di legno.
Capisci cos’era questa città prima dell’avvento di ristoratori barbarici a caccia di turisti affamati da turlupinare. Ma con luoghi come questo, non ci sono scuse: mangiare semplice in una dimensione umana si può, basta volerlo.
Trattoria Coco Lezzone, l’antica cucina economica di Firenze
“Qui da noi, anche quando viene una regina, si siede allo stesso tavolo con gli altri”: è proprio quel tavolone collettivo lungo e ieratico il simbolo della cucina democratica di Coco Lezzone. La lezione di etica gastronomica è altissima: davanti all’unica vera nobiltà, quella del cibo tradizionale, tutti gli avventori sono uguali, con il medesimo diritto di mangiare bene e genuino.
Un piccolo regno dell’Utopia concreta, questo locale secolare, perché davvero qui dentro saltano tutte le gerarchie, le classi sociali, le divisioni politiche e religiose, le differenze di censo: si mangia tutti allo stesso tavolo, gomito a gomito, in una sorta di amore panico per la ritrovata umanità e la buona cucina.
Dal 1800 in questo locale si fa cucina fiorentina, senza il benché minimo orpello. Il peso della Storia lo si avverte fin dall’ingresso, carico di testimonianze della tanta stampa che si è comprensibilmente occupata di questa storica trattoria.
Ma la certificazione della sua autenticità storica è la cucina economica in ghisa e mattoni refrattari che dall’inizio del ’900 trasforma la materia prima in piatti imperdibili.
Ancora alimentata a legna, gestita con cura certosina come fosse creatura viva, è l’anima della cucina di Coco Lezzone: non soltanto per l’immenso fascino che emana e per le tante storie golose cui ha dato vita, ma anche perché è proprio vero che le pietanze cotte nel suo forno hanno tutt’altro sapore. Il legno incendiato che fuma crepitante e la torba che genera, conferiscono alle carni cotte in forno un lieve sentore di affumicato, a dir poco sublime.
Il menu presenta variazioni e sorprese di giorno in giorno, in base a cosa si trova al mercato e soprattutto alla stagionalità dei prodotti. Varia anche l’atmosfera in base al momento della giornata in cui andate. Infatti lo abbiamo provato sia a pranzo che a cena, ricavandone emozioni diverse: se la sera ti coccola con un’atmosfera rilassata e di frugale eleganza, a pranzo ti diverte con il clima da autentica trattoria di una volta, un clima casalingo e informale dove ti senti a casa e ti spingi magari a chiedere un assaggio di questa o quell’altra pietanza, venendo sempre accontentato dalla gentilezza degli osti.
Le zuppe sono un’apertura imperdibile.
La loro pappa al pomodoro sa di ricordo di gioventù: leggera e sapida, ha una buona acidità che mette appetito e chiama vino. Sfidiamo chiunque a non chiedere il bis, perché è di una bontà irresistibile.
La ribollita è in una versione cremosa, con un accento balsamico di spezie: equilibrata, sorprende per la gentilezza, rispetto alla ruvidità della ricetta casalinga.
Delicatezza che si ritrova anche nella pasta e fagioli, con questi ultimi ridotti in vellutata purea.
Ovviamente tra i piatti più richiesti c’è la fiorentina, qui presa talmente sul serio che i clienti vengono pregati di prenotare con buon anticipo, per poterla gustare al suo meglio…
… ma non è l’unica delizia di carne per cui valga la pena venire al Coco Lezzone: noi, per esempio, ci siamo diretti sull’arista, cotta al forno per ben sei ore: quanto magnificamente si sente che è stata cucinata col fuoco della legna! Compatta, appena aromatizzata, è semplice e strepitosamente buona.
Tra i contorni, assumono un fascino poetico i carciofi quando ti spiegano come li hanno puliti a mano con grande pazienza, fino a offrirtene l’essenza.
Buoni i cantucci con l’aleatico, conclusione di un pasto così autenticamente fiorentino.
Per il vino, il Chianti della casa ben sostiene tutto il pasto, ma se volete, da Coco Lezzone sono molto orgogliosi della propria cantina: collocato in un sotterraneo di fronte al locale, è la collocazione ideale per ben curare tutti i più pregiati vini che la Toscana possa offrire.
Al microfono, il cuoco Fabrizio Noferini ribadisce quanto abbiamo riscontrato: la singolarità della cucina a legna, la democraticità di un menu che non distingue pranzo per turisti da quello per locali ma tratta tutti allo stesso modo, quindi la stagionalità dei prodotti che governa le scelte; fino a una curiosità: la ragione storica per cui non si serve il caffè a fine pasto…
Info: www.cocolezzone.it
Osteria Cipolla Rossa: la vera cucina di Firenze è contadina
Fino a quando ci sarà un personaggio come Nicola Schioppo, ci sarà speranza per la vera cucina italiana. Perché Schioppo è la perfetta antitesi di tutta la droga di massa inoculata da programmi televisivi beceri e guide inutilmente elitarie: personifica la gioia di stare in cucina con semplicità, senza grilli per la testa.
Uno che ha rispetto per tutti ma che va avanti per la propria strada, lastricata di tradizione, tanto che se gli chiedi un commento sul più importante stellato di Firenze ti dice che è “un gradissimo, ma fa un altro mestiere”.
Sì, perché il mestiere di Schioppo è il non arrendersi alla scomparsa dell’identità culinaria fiorentina: così ricerca incessantemente vecchie ricette, antiche preparazioni, assumendosi il ruolo di tutore dei beni culturali gastronomici della città.
Questo senza rinunciare all’eleganza (basti osservare l’arredo del suo locale), al savoir-faire (piace alla gente che piace) e alla conoscenza della modernità (non c’è giovane produttore enologico che non conosca).
Tutto ciò dentro un locale che ha un nome tutt’altro che ruffiano come Cipolla Rossa. L’Osteria si trova in via dei Conti 53/r, “nel cuore del centro storico fiorentino, nel quartiere del caratteristico mercato di San Lorenzo, a due passi dalla chiesa omonima e dalle famosissime Cappelle Medicee con le celebri sculture di Michelangelo”.
L’allettante programma del locale annuncia “innumerevoli conserve, tipo sott’aceti, sott’olii e marmellate varie, tutto rigorosamente preparato dalla nostra cucina”, un menù che “verte principalmente sui piatti tipici fiorentini, spaziando dai suddetti antipasti alla pasta fatta in casa con sughi della tradizione, per culminare con la regina della nostra cucina, che è la bistecca di femmina, tanto buona quanto rara da reperire”, mentre “la lista dei vini annovera circa un centinaio di etichette, di provenienza non del tutto comune”.
Ciò che trovi poi supera le promesse ed è perfino più di quanto si possa immaginare e desiderare. Perché da buon oste di una volta Schioppo è pronto a suggerirti deviazioni, divagazioni, scoperte, alla luce di quanto ha dettato la spesa del mattino e la stagionalità dei prodotti.
Già, i prodotti. Come quell’olio extra vergine d’oliva che fa capolino per primo in tavola: prodotto dal Frantoio Pruneti di San Polo, nel cuore del Chianti Classico, la sua potenza organolettica sospesa tra amaro e piccante è capace di esaltare al massimo sia la fettunta con i fagioli bianchi che la bruschetta. Non hanno bisogno di aggiunte invece gli eccezionali crostini con i fegatini.
Sono il viatico per una sbriciolona di miracolosa bontà, vellutata e carezzevole al palato. Il lardo di Colonnata si scioglie in bocca sprigionando fresca sapidità, mentre il salame del senese è autenticamente contadino.
Il prosciutto crudo di Scarpaccia arriva dal Casentino, “alta valle dell’Arno ricca di boschi che va dalla sorgente del fiume nel monte Falterona fino alle porte di Arezzo”, dove “i più anziani ricordano una razza locale di colore scuro adattata a vivere in allevamento brado o semibrado, rustica della quale se ne sono perse le tracce”, mentre “in un testo storico dell’Ottocento si citano prosciutti pregiati che erano spediti perfino in Germania e in Inghilterra” (www.cm-casentino.toscana.it): adesso è stata recuperata questa tradizione antica, il cui risultato è un salume delicato e aromatico, in perfetto equilibrio tra dolce e salato.
Intorno a questo trionfo di salumi, si ergono i sottaceti della mamma di Schioppo, Gabriella Righi: molto acetosi, ma di aceto vero parliamo, sono fragranti e sinceri, ma soprattutto golosi. Applausi alla signora Gabriella, casalinga che ha molto da insegnare all’industria professionale delle conserve.
Intanto scopriamo che alla Cipolla Rossa anche il pane è molto più buono della media cittadina, mentre la tavola viene illuminata da un Trebbiano di Capezzana del 2007: un bianco che si beve quasi come un rosso, molto minerale, ben sapido, denso, con una patina dolce meravigliosa.
Passando ai piatti caldi, si comincia con il zuppangolo, il quale varia ogni giorno: a noi, fortunatamente, tocca la minestra di lampredotto e cavolo nero con crostini di pane, sublime e ancestrale bontà, con la verdura che dà freschezza alla carne tenerissima.
Sotto quindi con le pappardelle al sugo di stracotto di guancia: commuove sapere che la lunghissima cottura è durata oltre sei ore, lasciata “a girare” affinché la carne inizi ad ammorbidirsi, fino a quando l’olio non viene tutto a galla annunciando che la pietanza è pronta. E’ una pasta che dà gioia alla masticazione, intrisa della densità estrema di un sugo clamoroso.
Con un piatto di questa importanza, entra in scena il Chianti Rodano del 2008: pepato al naso, sa di frutta matura e ha accenti balsamici, con un grande corpo che ne fa un vino da masticare.
Un simile nettare deve sostenere il capolavoro conclusivo di Schioppo, un maialino grigio, nato da un incrocio, cucinato con la cotenna: il grasso ai bordi, sgranocchiato, è una scala per il paradiso, su cui si sparge un persistente sentore di selvatico.
Ultimo tocco di classe, una cheese cake cruda: fantastica.
Corriamo a cercarlo tra cucina e sala, per farci spiegare cosa sia davvero la cucina fiorentina e come faccia a coltivarla nelle sue declinazioni più antiche.
Info: www.osteriacipollarossa.com