Al ristorante I Panigacci di Boarezzo (VA), tanta carne al fuoco
È il ristorante popolare di culto dei carnivori nell’Alto Varesotto, anche se il primato è dovuto al rapporto qualità-prezzo e alla formula indovinata del servizio, più che alla qualità oggettiva.
I Panigacci, con la sua ristorazione conviviale e concreta, porta tanta gente ad arrampicarsi fino a Boarezzo, borgo in Valganna, in provincia di Varese, “posto su un fianco del monte Piambello”, con “poche case in sasso, strade strette e viottoli acciottolati”, circondato “da boschi di faggi e castagni, che caratterizzano un paesaggio tipicamente montano”.
Lo chiamano il villaggio dipinto grazie a un progetto di alcuni anni fa in seguito al quale degli artisti hanno creato “pannelli dipinti e affrescati che furono collocati sui muri delle case tramandando, in una sorta di racconto a percorso, le tradizioni e gli antichi mestieri della vita rurale del luogo” (www.vareselandoftourism.com).
Il nome del locale è mutuato da una specialità antica, i panigacci, molto diffusi nella Lunigiana e nella Riviera ligure, anche se il luogo di nascita sarebbe individuato in Podenzana, piccolissimo centro in provincia di Massa Carrara in Toscana.
“L’impasto è composto da Acqua, Farina di Grano e Sale” spiegano sul sito del ristorante, mentre “gli strumenti utilizzati sono i Testi di Terracotta, il Camino, un Mestolo, le Pinze di Ferro, un Guanto di Cuoio e l’Esperienza”.
Abbiamo ripreso con la nostra telecamera come vengono realizzati i Panigacci nell’omonimo ristorante.
Sempre dal locale consigliano per gustare al meglio questa specialità “di piegare il panigaccio ancora caldo in due, imbottirlo di salumi e /o formaggi, e consumarlo direttamente come un panino”.
Lo abbiamo fatto e l’esperienza è effettivamente molto golosa. I panigacci, a un’estrema fragranza, uniscono i sentori torbati derivanti dalla sua cottura: le inevitabili piccole parti bruciacchiate diventano elemento positivo del suo gusto, rustico e appagante. Onesta la selezione dei salumi con cui vengono accompagnati: il carattere intenso dei panigacci sembra preferire l’accostamento con quelli più grassi, come il lardo e la pancetta. Ghiotto l’altro accostamento con crescenza e gorgonzola.
Si tratta dell’apertura d’obbligo per chi viene a pasteggiare qui, il quale, nella stragrande maggioranza dei casi, prosegue attingendo al menu della carne.
Menu ricco e composito, costruito con sapienza per vellicare l’acquolina degli amanti della carne in tutte le sue declinazioni più robuste.
Le fiorentine sono tutte “T-Bone, quindi filetto e contro filetto di bovini femmine adulte” che pesano da un chilo in su, delle tipologie Scottona Piemontese, Hereford Irlandese, Bovinus Luxury (razza Frisona Holstein allevata in Germania e Olanda), Angus Black Gold scozzese, Bovinus Luxury One’s Best (con alta marezzatura), Chianina allevata in purezza.
Fin qui, un plauso.
Ma affiorano le prime problematiche. La carne è già tagliata a porzioni e conservata sottovuoto, come lo stesso gestore ci ha mostrato.
Di per sé, ciò è garanzia di perfetta conservazione e di igienicità.
Sul piano del fascino però le cose cambiano. Nei grandi locali che servono carne di altissima qualità, questa pratica sarebbe stigmatizzata. I più importanti ristoranti di carne infatti gestiscono in prima persona il prodotto in ogni suo passaggio, quindi compresa la conservazione del pezzo intero, la sua frollatura e il taglio fatto mano personalmente dagli addetti del locale.
Nella patria delle fiorentine sarebbe un’eresia il metodo visto ai Panigacci. Penso all’osteria Coco Lezzone di Firenze, dove il titolare ci ha condotto nel laboratorio del ristorante in cui i pezzi interi di carne vengono fatti riposare, spiegandoci che se si vuole provare la fiorentina nel suo locale bisogna prenotarla tre giorni prima, affinché la si possa portare al giusto grado di frollatura, altrimenti loro non la propongono nemmeno ai clienti.
Naturalmente quanto detto influisce moltissimo sul prezzo.
È evidente che il metodo adottato ai Panigacci consente di offrire della buona carne a prezzi molto accessibili rispetto agli altri ristoranti, quindi si tratta di una filosofia apprezzabile dal punto di vista sociale e della democrazia del gusto, perché consente a tutti di godere di tagli anche pregiati senza doversi svenare al momento del conto.
Meno apprezzabile invece la confusione che il locale fa sulla moda del momento, la carne “tipo Kobe”. Il manzo di Kobe è il più famoso wagyu, termine che indica genericamente i bovini del Giappone. Si tratta di una specialità che in tanti (noi compresi) considerano la più pregiata al mondo e quindi anche la più costosa: impossibile trovarla a meno di duecento Euro al chilo, nella migliore delle ipotesi.
La sua caratteristica è la intensissima marezzatura, ovvero la capillare diffusione di grasso nelle trame della carne, così estesa che la fetta assume un biancore che riproduce un effetto marmoreo, frutto sia di uno scrupoloso allevamento, ma anche di intensi massaggi praticati alle bestie.
Ai Panigacci si leggono in carta le diciture “Fiorentina di Wagyu tipo Kobe” e “Filetto di Wagyu tipo Kobe”, con un prezzo di 9 Euro l’etto, ovviamente impensabile per l’originale. Purtroppo va rilevato che, nel proporci questo taglio di carne, ci è stata data un’informazione errata, secondo la quale il Kobe in Italia non possa essere importato: questo non è vero. Si tratta di una notizia sbagliata che non è giusto fornire ai clienti: lo abbiamo fatto notare ai titolari e speriamo che non la riferiscano più agli avventori.
Infatti già il 4 ottobre 2014 sul quotidiano Il Giorno il nostro Marco Mangiarotti parlava dell’arrivo del Kobe in Italia, quello certificato, grazie alla Griglia di Varrone, ristorante di Milano che si trova dietro corso Como: anche noi ne abbiamo riferito nello medesimo servizio pubblicato il 18 novembre dello stesso anno (www.storienogastronomiche.it).
Durante l’Expo poi il fenomeno è esploso, grazie a diverse aziende giapponesi che hanno iniziato a portarlo in Italia. Oggi il Kobe si è diffuso in Italia e si trova nei locali più attenti alla qualità, compresi quelli di sushi più chic, come il Light Contemporary Food di Legano (www.lightlegnano.it) che lo propone ovviamente a crudo, ovvero il modo migliore di gustarlo.
La carne “tipo Kobe” tuttavia è un fenomeno da non trascurare che sta investendo tutto il mondo, stimolato dal desiderio dei consumatori di potere provare il Kobe, vanificato però dai prezzi proibitivi.
La versione offerta dai Panigacci è spiegata dallo stesso locale nel suo sito. Si tratta di un “metodo innovativo tutto italiano” nato dalla collaborazione tra una università e un’azienda che produce carne: “una produzione di bovini Selezionati e allevati con un sistema simile a quello dei bovini Wagyu e che permette di ottenere un prodotto unico, tutto Italiano, alquanto ricercato e diverso dalla carne bovina, anche quando di buona qualità”. Sarà… ma al primo sguardo, osservando il taglio di carne ottenuto con questo metodo, il risultato appare lontanissimo dall’originale: della cosidetta marmorizzazione si vede giusto qualche traccia e chi conosce e ama il vero Kobe non prenderebbe mai in considerazione l’ipotesi di sostituirlo con questa sperimentazione. Un progetto di cui non si comprende proprio la ragione, al di là del profitto meramente commerciale: che senso ha scimmiottare una tradizione lontanissima che appartiene a tutt’altra cultura, quando in Italia abbiamo razze e metodi di allevamento millenari tutti nostrani che non sono certamente meno degni di quelli nipponici?
Infatti noi ai Panigacci abbiamo provato un taglio di carne italiana e ne abbiamo ricevuto soddisfazione: buona qualità, soprattutto alla luce del prezzo, civilissimo. Non una carne per la quale rifaremmo il viaggio, ma corretta.
Forse il locale farebbe meglio a implementare la ricerca delle carni da razze bovine italiane, visto che ci sono tante squisitezze sconosciute nel Paese, dalla strepitosa Marchigiana all’ostica ma subile Cabannina ligure, invece di spingere su progetti imitativi che mai potranno raggiungere il livello degli originali giapponesi.
La vera specialità esclusiva dei Panigacci invece si trova tra i dolci: è la Cilappa, tipicità servita calda che mette insieme pere, mele e prugne, cotte nel vino rosso speziato. Una verà bontà, dall’intensa dolcezza che con il freddo ha un soave effetto corroborante.
Non eccelsa la carta dei vini. La referenza più interessante che abbiamo trovato è il Vellutato di Villa Pigna, cantina di Offida, in provincia di Ascoli Piceno, la quale utilizza per questo vino “uve autoctone macerate a lungo”: gradevole nei profumi, ha il sorso giusto per pasteggiare con la carne.