Specialmente… nel Varesotto: dove mangiare tipico
La cucina del varesotto: radici contadine nelle osterie della tradizione
Gli indigeni sembrano crederci poco, sottovalutandosi, invece il varesotto è ricco di belle sorprese (anche) dal punto di vista gastronomico. A patto di saper cercare e aver voglia di farlo.
Sì perché molti, troppi ristoratori della zona, sembrano accontentarsi della routine, proponendo una cucina generalista in una maniera piuttosto svogliata. Lo fanno perché credono che la cucina del territorio non sia attrattiva, né per i clienti locali e ancor meno per i forestieri. Così privilegiano la proposta di pietanze che si potrebbero trovare da qualsiasi altra parte d’Italia, pur di fatturare, lasciando morire vecchie ricette tipiche varesotte che oggi invece rappresenterebbero preziose testimonianze del tempo che fu. Un tempo scandito da povertà e lavoro duro che forse in tanti in questa provincia vogliono esorcizzare dimenticandolo almeno a tavola.
Per fortuna c’è stato chi non si è arreso a questo impoverimento della memoria, come il coraggioso archeo-chef Dario Mazzola che per anni se n’è andato in giro per la zona a ritrovare vecchie ricette e per un periodo le ha riproposte in una sua Osteria che purtroppo con la nuova gestione ha perso quella valenza culturale.
In provincia di Varese ci pensa l’inverno a risvegliare i ricordi, la stagione in cui per fortuna ancora in tanti cercano la cassoeula, anche se la pretendono bonificata dalle parti più grasse del maiale, perché si dice che i raffinati contemporanei abbiano il pancino delicato e non possano reggere le parti più pesanti della ricetta, come i piedini. Peccato che i ristoratori accettino il ricatto dei salutisti e alleggeriscano i loro bottaggi, ma è già tanto che resista il consumo di questo meraviglioso piatto lombardo per eccellenza.
Le vere perle però le trovi se vai a fondo nella ricerca. Sono riposte soprattutto nella zona di Busto Arsizio, depositaria di meravigliose ricette ancora poco conosciute, eccezion fatta per i brüscitt ai quali qualche trasmissione televisiva popolare ha donato nuova e improvvisa notorietà nazionale.
Ma anche di materia prima tipica è fatto il varesotto, come gli Asparagi De.Co. di Cantello, sempre più alimento di culto da parte dei gourmet.
Più si frequenta il varesotto e tanto più ci si convince che dovrebbe superare il proprio complesso di inferiorità gastronomico: anzi, si dovrebbe essere fieri della cucina di questo territorio quanto dei successi conseguiti dalle sue industrie.
Abbiamo cercato di capirne di più della cucina varesotta con un oste che la propone tutti i giorni, Fabio Rivolta dell’Osteria La Rava e la Fava di Busto Arsizio. Dalle sue parole emerge che questa non è terra per formaggi, ma di salumi sì, come dimostra l’incredibile storia degli insaccati che venivano appesi su dei fili stesi nella stazione ferroviaria di Busto Arsizio affinché venissero affumicati dai vapori emessi dai treni. Uno dei racconti che emergono dal video che segue.
Info: www.osterialaravaelafava.it
Osteria La Rava e la Fava a Busto Arsizio, nel regno dei brüscitt
Monza, Como, Varese: la lingua di terre che incorona l’Alto Milanese è da sempre sospesa tra scambi materiali e conflitti identitari, anche e soprattutto a tavola.
La contesa è sulla paternità di alcuni piatti importanti della tradizione lombarda, dal pan tramvai o tranvai alla luganega o lügàniga, passando per la rustisciada, o rustida, o rustisciana: non siamo noi indecisi sul nome da attribuire a queste delizie, è che spostandosi dalla Brianza al Varesotto cambia terminologia a ogni passo.
Rimane la sostanza di piatti contadini che riflettono l’antropologia del territorio. “In questa zona si è sempre lavorato tanto, quindi non si è mai avuto tempo da dedicare alla cucina” spiega Fabio Rivolta dell’osteria La Rava e la Fava di Busto Arsizio, “erano perfetti così piatti come i brüscitt e la rustisciana, perché la loro cottura molto lunga consentiva di cucinarli mentre si continuava a fare altro: i contadini li mettevano su a cuocere, andavano a faticare in campagna, quindi tornavano dal lavoro e li completavano”.
Nel locale di via Milano 4 a Busto Arsizio entrambi questi piatti si mangiano nella loro massima espressione. Il capolavoro assoluto è la loro Rustisciàna, fatta con cottura lunghissima di carne di maiale, cipolle e pomodoro.
Semplice a dirsi, sconvolgente a mangiarsi. Il trito del soffritto scatena una goduria gustativa inaudita che contagia i pezzettoni di carne e la salsiccia su cui si adagia, mentre il sughetto da solo vale il viaggio.
I loro Bruscìti seguono l’antica ricetta originale del Magistero, ma sono molto personali: meno accentuato il contributo delle spezie, ci si concentra su una squisita sapida cremosità cui incredibilmente fanno giungere le carni tagliate al coltello. Sono piatti da servire con la polenta, qui quella integrale biologica della Valle d’Aosta, ottima.
C’è tanto altro da godere qui, come le zuppe incensate dalle guide, ma una nota di merito va anche alla scelta dei vini: in grande evidenza le perle dell’Oltrepo Pavese realizzate in biologico da Quaquarini.
Abbiamo chiesto a Fabio Rivolta di raccontarci la cucina della sua osteria, fin dalle radici, fortemente ancorate al territorio.
Info: www.osterialaravaelafava.it
I vini dell’Oltrepo Pavese di Quaquarini, raccontati dall’oste
Chi meglio di un oste che li serve tutti i giorni, può raccontare dei vini? O addirittura un’intera azienda, nei casi in cui un’osteria decide di dare grande importanza a una specifica cantina nella propria carta dei vini.
Come accade all’Osteria La Rava e la Fava di Busto Arsizio, la cui carta contiene tutti i migliori prodotti dell’Azienda Agricola Quaquarini, splendida realtà dell’Oltrepo Pavese che produce in biologico, i cui nettari si sposano perfettamente con la cucina bustese.
Qualità eccelsa a prezzi ragionevoli, con una linea di vini di base che si può perfino trovare nei supermercati della catena Carrefour, mentre quelli di maggior pregio mantengono comunque un eccellente rapporto qualità-prezzo.
Si intuisce quindi con quanta intelligenza e rispetto per il clienti sia stata concepita l’offerta enologica in questa osteria del varesotto, anche perché Giancarlo Rivolta che la gestisce con il figlio Fabio è un profondo esperto di vino.
Per questo gli abbiamo chiesto di raccontarci l’illuminante attività di questi pregevolissimi produttori di Canneto Pavese, esponenti di un territorio che meriterebbe maggiore considerazione per l’eccellenza dei suoi vini.
Info: www.quaquarinifrancesco.it, www.osterialaravaelafava.it
Osteria dei Peccatori: a Gallarate il paradiso può attendere, la Gola no
Se questo è il ritrovo di chi fa peccato, allora nessuno vorrà più andare in paradiso. Perché in pochi luoghi di ristorazione al mondo ci si sente beati quanto all’Osteria dei Peccatori di Corso Colombo 39 a Gallarate, in provincia di Varese. Qui ci si inebria con il profumo della cucina di una volta, coltivata con toccante passione da Marco Colombo, cuoco giovane innamorato della memoria antica.
E’ commovente osservare quanto Colombo sia devoto a una gastronomia autenticamente popolare, tanto quanto è sorprendente verificare che questo suo approccio pauperista non rinuncia a un forte impianto intellettuale. Riesce infatti a fare una cucina semplice ma al tempo stesso colta e raffinata. Dimostrando che ci vuole grande intelligenza e autentica conoscenza per fare la cucina di tradizione, al contrario dello sciocchezzaio degli stellati innovativi.
Il posto scelto per allocare l’osteria ha probabilmente influenzato o quanto meno suggestionato la scelta di cucina povera e popolare di Colombo. Infatti in questi ambienti c’era un vecchio Cral, Circolo Ricreativo Aziendale dei Lavoratori: si tratta di una forma associativa gestita da rappresentanti dei lavoratori e spesso cofinanziato da un’azienda, con lo scopo di organizzare varie attività ludiche, come viaggi, tornei sportivi, gite per bambini, uscite a teatro. In un ambiente così autentico, i piatti che si servivano ne rispettavano la schiettezza.
Sono stati proprio i vecchi frequentatori del Cral a chiedere di rimettere in carta un piatto di allora rimasto scolpito nella loro memoria.
Negli anni ’60 ai fornelli del circolo c’era un vecchio cuoco piemontese che faceva uno stufato d’asino molto amato dagli avventori del tempo, i quali magari venivano nel locale semplicemente per guardare uno dei primi televisori in bianco e nero. Colombo ha così contattato il vecchio presidente del Cral di quel tempo e insieme sono riusciti a rintracciare l’anziano cuoco, facendosi svelare il segreto della sua ricetta, a grandi linee, perché non era abitudine dei cuochi scriversi le ricette, basandosi invece sulla tradizione orale. E’ una sorta di gulash di asino con tante cipolle e aromatizzato con la paprika. Ecco come Marco Colombo ci ha riferito la storia dell’antica ricetta orale dello stufato d’asino dell’osteria.
Cucina alla vecchia maniera, la stessa che da sei anni Colombo ha riportato tra queste mura.
Si parte alla mattina preparando il brodo, con quattro verdurine e un ginocchio di manzo o vitello, affinché dia sostanza ai piatti e supporti la cucina dell’osteria tutta la giornata.
Servirà per esempio per insaporire l’ossobuco adagiato accanto a un magnifico risotto alla milanese.
Per ottenere attendibilmente i sapori antichi, Colombo chiede amichevolmente consulenza ai suoi parenti della zona o agli anziani del posto, per farsi raccontare com’erano e riproporli fedelmente.
Vale anche per le abitudini.
Emoziona che Colombo abbia mantenuto la tradizione di servire un bicchierino di grappa per accompagnare la sua straordinaria cassoeula: è meraviglioso gustare quel tripudio di carne saporita insieme all’elegante e sorniona Francoli di vinacce di Vespolina. Cassoeula ricca ma con misura, fatta secondo tradizione, a eccezione della scelta di non usare più le estremità del maiale. Sempre in carta, vale il viaggio, anche in aereo.
Immancabili in questo contesto i brüscitt, quelli tipici bustocchi, secondo la ricetta depositata in Camera di Commercio. Vari tipi di carne di manzo tagliati al coltello, cotti con vino rosso, lardo, burro, aromatizzati con l’erba buona, un sacchettino di finocchio e aglio.
Serviti con una rustica polenta di mais di Marano perfetta per densità, i brüscitt dei Peccatori sono quasi balsamici per il forte apporto aromatico del finocchietto. Il Magistero dei Bruscitti di Busto Grande ha più volte approvato la loro ricetta, certificandone l’autenticità.
La trippa è fedele alla ricetta milanese, quindi con i fagioli: notevole la misura della cottura, in equilibrio tra edibilità e golosità.
Ben differenti sono invece i mondeghili, qui chiamati mondeghitt come si usa a Busto: la particolarità consiste nell’aggiungere ai classici fondi degli arrosti e al pane grattugiato in casa, anche la fedeghina bustocca, una mortadella di fegato.
Proviamo pure il ganassino, un guanciale di manzo tenero e gustoso.
Fin qui la poesia radicale. La quale però non può bastare a spiegare perché il locale sia sempre affollato. La ragione è che Colombo è un ragazzo sveglio e conosce così bene il gusto popolare da essere in grado di assecondare anche il palato di chi non chiede necessariamente grandi voli intellettuali a ciò che si ritrova nel piatto. Così il cuoco scatena il suo talento anche in preparazioni più divertenti e conviviali.
Su tutte, un trionfo di ben sette tipi di cotolette, tante quanti i peccati capitali dei quali portano i nomi, in ossequio alla denominazione del locale. Fatte in stile orecchia d’elefante, alcune cambiano stagionalmente. I gestori sanno bene come deve essere la classica costoletta alla milanese, ma grazie a questa invenzione hanno alimentato la propria fama popolare.
Ecco allora un perfetto esempio di come si possa unire l’auspicabile impegno culturale di un oste con la sua legittima necessità di far quadrare i conti. Abbiamo così chiesto a Colombo di farci una panoramica della sua offerta culinaria.
A completare il quadro idilliaco di questa osteria, la presenza in sala di Anna Mascolo, raffinatissima esperta di vini, ma soprattutto instancabile ricercatrice di nettari autoctoni. Anche per il vino infatti nel locale viene seguita la strada della tradizione: niente intrugli modaioli, soltanto vini che abbiano una storia e un legame vero con il proprio territorio.
E’ così che nel cuore del varesotto si può scoprire un raro vino autoctono campano come il Bariletta, rivelazione per la quale non smetteremo mai di ringraziare Anna.
Info: www.osteriadeipeccatori.it
Il Bariletta, autoctono del casertano, star nel varesotto
E’ un pezzo di storia nascosta di un angolo della Campania, ma è diventato di culto nel Nord Italia grazie a un magnifico locale varesotto, l’Osteria dei Peccatori di Gallarate che ne ha fatto un vanto della propria carta dei vini. Merito del talento e dell’impegno di Anna Mascolo, esperta di vini che gestisce la sala dell’Osteria e che non manca di suggerire ai clienti di provare questa meraviglia del Sud. Ottenendo sempre più entusiastica adesione da parte dei numerosi clienti che non mancano di chiederlo a ogni pasto.
Parliamo del Bariletta, vitigno antichissimo tipico della zona di Caserta, diffuso già al tempo dei Romani.
A riscoprirlo è stata l’azienda Telaro, titolare già di una strepitosa Falanghina da vendemmia tardiva. Telaro coltiva il Bariletta su terreno vulcanico, vinificandolo quasi in purezza. Il Bariletta Roccamonfina IGT di Telaro infatti ha un 80% di Bariletta e il rimanente 20% di un’altra antica gloria enoica locale, il Casavecchia. Tutto l’affinamento avviene in acciaio e poi in bottiglia, radicalità alla quale plaudiamo.
Il risultato è una sorpresa scioccante. Colore rubino intenso e profondo, una volta ossigenato si carica di corpo. Profuma come un rovo di more. In bocca è un effluvio di marmellata di frutti rossi maturi. Acido, poco tannico, di formidabile beva grazie a un finale leggermente abboccato. Uno dei più particolari vini italiani.
Rendiamo allora giusto tributo a chi ci ha creduto, come Anna Mascolo, la quale ci racconta questo vino nel video che segue.
Info: www.vinitelaro.it, www.osteriadeipeccatori.it
Antichi piatti lombardi riscoperti da Dario Mazzola
Dario Mazzola da anni ricerca pietanze contadine e ricette antiche a rischio di scomparsa, dato che molte non sono mai state fissate nei libri, bensì affidate alla tradizione orale e ai ricordi degli anziani.
E’ così che è tornato in tavola il Pan Dorà, la bistecca dei poveri, pane raffermo impanato e fritto come una cotoletta, servito ancora sfrigolante con sopra un velo di lardo sciolto: pazzesca golosità ancestrale.
Stessa origine contadina per il Pancot, piatto di recupero di pane duro e ortaggi avanzati: di fatto è la pappa col pomodoro lombarda, con la stesa suadente acidità appetitosa.
Di provenienza ecclesiale invece l’antico e misconosciuto Risotto delle Monache del Sacro Monte di Varese: spiazzante l’accostamento tra la croccantezza delle noci intere e la morbidezza dei carciofi, tenuto insieme da una strepitosa mantecatura burrosa di un ottimo riso carnaroli.
Si torna nelle povere campagne per la Pasta Rostida: soffritto di cipolla e pancetta tesa, sfumato dal brodo, accoglie la pasta al dente che viene unita a patate bollite, creando un gusto persistente che rallegra a lungo il palato.
Lo Stufato dei Promessi Sposi non è ispirato a Manzoni ma alla remota usanza di servirlo ai pranzi di fidanzamento: se veniva bene, riusciva anche il matrimonio; ore di cottura lo rendono quasi cremoso, adagiato su un sughetto di clamorosa dolcezza.
Da bere, una verticale di vini dei ronchi varesini della Cascina Piano, freschi blend di vitigni come nella ruralità locale di un tempo.
Come dolce, la Barbajada, caffè caldo con cioccolata e crema di latte: equivalente del Bicerin piemontese, è però una De.Co. di Milano, ma provate a trovarla in città…
Abbiamo chiesto al titolare Dario Mazzola come è giunto alla creazione di un simile patrimonio culinario e antropologico.
Il Risotto alla maniera delle monache del Sacro Monte di Varese
Tra i segreti custoditi nei conventi, ad affascinare di più i laici sono da sempre quelli culinari. Come le secolari ricette dei tanti dolci nati tra le mura dei luoghi di ritiro per la contemplazione religiosa, le cui autentiche regole di preparazione non sempre hanno varcato la soglia dei conventi.
Per questo ha un valore culturale straordinario che Dario Mazzola sia riuscito a ottenere la vera ricetta dell’antico Risotto alla maniera delle Monache del Sacro Monte di Varese, ignoto ai più perfino nella stessa provincia di provenienza.
Un piatto di grandissima originalità, a partire dall’accostamento degli ingredienti, come le noci lasciate intere a fianco dei carciofi, il tutto mantecato insieme a riso carnaroli, salumi e formaggi.
Asparago di Cantello (Va), De.Co. da provare all’Osteria di Nerito Valter
Tra aprile e maggio si scatena un vero pellegrinaggio verso Cantello per provare gli asparagi tra i più celebrati d’Italia. Ogni anno gli appassionati prendono d’assalto il piccolo comune del varesotto confinante con la Svizzera, attirati da quell’asparago bianco sempre più considerato dai gourmet lombardi e non soltanto.
Un successo dovuto alla sua dolcezza e docilità in bocca, ma anche al candore indotto dalla negazione della luce in fase di coltivazione.
Di provenienza francese, imparentato con l’argenteuil precoce dell’area parigina, questo asparago era arrivato a un passo dall’estinzione, prima che circa vent’anni fa tornasse di moda.
Oggi è una De.Co. di Cantello, prodotto a Denominazione Comunale che in paese viene celebrato da una fiera giunta alla settantatreesima edizione, ma soprattutto dai ristoratori locali che fanno il pieno ogni giorno con i loro menu a tema.
Il migliore posto dove gustarli a Cantello è senza dubbio l’Osteria di Nerito Valter in via Roma 4.
Il piatto cantellese classico prevede dieci asparagi serviti con tre diverse opzioni. La più golosa è certamente quella che li vede associati a due uova fritte e una spolverata di formaggio gratinato: micidiali, si divorano. Il sapore puro viene fuori invece quando sono conditi soltanto da olio e limone, o nell’ottimo antipasto in cui sono marinati in carpione.
Particolare il risotto, in cui gli asparagi rimangono in pezzi ancora croccanti: rigoroso e originale, sazia e soddisfa grazie alla ricca mantecatura al formaggio. Interessanti anche i primi per palati più facili, crespelle e ravioloni in cui però l’asparago non recita da protagonista assoluto.
A tutto pasto, il vino deve essere bianco, non si discute. Perfetto il Riesling dell’Oltrepo Pavese di Piccolo Bacco dei Quaroni, fruttato, minerale, di buon corpo, vi si esalta il frutto a polpa bianca.