Archeogastronomia della Sicilia nel nuovo saggio di Marco Blanco
I quaderni di Archestrato Calcentero: già il titolo è un calembour di significato e significante, in cui i “quaderni” richiamano i taccuini dei maestri cucinieri, Archestrato sta per “il padre della cucina siciliana”, mentre Calcentero viene dal greco antico per indicare uno “stomaco di bronzo” come quello che l’autore attribuisce a se stesso.
L’autore è Marco Blanco, “libraio per professione e ricercatore per vocazione”, titolare di altre pubblicazioni riguardanti i detti popolari, la storia remota della città di Modica e quella più recente della gloriosa Dolceria Bonajuto: queste invece sono le sue Divagazioni Archeogastronomiche in terra di Sicilia, date alle stampe dall’appassionato editore Bonfirraro di Barrafranca (Enna).
Nella prefazione Giancarlo Poidomani, docente di Storia contemporanea all’Università di Catania, riferendo di avere incontrato spesso nelle sue ricerche delle antiche liste della spesa, con ingredienti simili a quelli odierni ma destinati a pietanze molto diverse nel gusto (“una commistione dolce-salato e aspro-agrodolce del tutto estranea alle nostre tavole”), sottolinea come esse siano fonti preziose per “raccontare usi e costumi alimentari dei nostri antenati e la loro vita quotidiana”.
Da qui il plauso all’opera di Blanco che unisce la passione per la gastronomia a quella per la Storia, trattate alla luce di una formazione archeologica.
Vengono riportate come fonti del volume regesti, quaderni di spesa diaria, registri, codici, ricettari, libri d’epoca, portando alla luce una biodiversità delle materie prime molto superiore a quella odierna, una visione omogenea degli ingredienti delle cucine dell’area del Mediterraneo che unisce popoli e religioni, quindi la constatazione che nella storia della gastronomia si fonda più che mai la realtà con la leggenda e l’aneddotica.
In diversi passi i dettagli sono così fitti da sfociare nell’indagine tassonomica, tracimando nel cesello da archivista che riporta perfino elenchi e liste che spengono ogni pulsione narrativa per farsi documento. L’autore deve essersi sentito investito della responsabilità di fissare su carta l’enorme mole di materiale informativo acquisito, pensando bene che consegnarlo all’eternità attraverso una sua pubblicazione potesse valere qualche deviazione dallo storytelling più ammaliante.
Storytelling che si esalta invece in un capitolo come Piccole arance dorate, evidentemente dedicato agli arancini. Si spazia dalla semantica (il genere dell’arancino/a è maschile o femminile?) alla paternità (la vexata quaestio della contesa tra Catania e Palermo), dalla morfologia simbolica (rappresenta un seno quando tondeggiante e un fallo quando conico?) alla metafora geologica (rappresentazione dell’Etna in eruzione).
Irretiscono le memorie legate all’arrivo nell’isola delle materie prime di questa pietanza, i cui meriti vanno massimamente agli arabi e in parte anche agli ebrei. Viene citata pure l’isola di Djerba, come punto di contatto tra musulmani e berberi, ma andrebbe aggiunto quanto il riso sia centrale nella gastronomia di questa isola che guarda verso le spiagge della Tunisia, la più grande del Nord-Africa: il piatto più tipico è infatti un gustosissimo riso aromatico, compatto, cotto per due ore e mezzo al vapore con spinaci, cipolle, aglio, cavolo fresco, ceci e carne di tacchino, davvero goloso.
Quando lo storico comincia a prevalere sull’affabulatore, Blanco comincia a emendare ogni leggenda per giungere a una realtà che sembra datare la nascita del vero arancino non prima dell’800, con buona pace di chi sperava in retrodatazioni che lo nobilitassero anche storicamente.
Nel capitolo IV non convince l’affermazione secondo la quale nulla sarebbe “più provvisorio e aleatorio della tradizione in cucina”, seguita da un superficiale sbeffeggiamento di chi conduce serissime e scientificamente inappuntabili battaglie in difesa delle ricette tipiche codificate dal tempo e della consuetudine: un atteggiamento snobistico che presta il fianco alle speculazioni dei cosiddetti chef dell’alta cucina che ogni giorno mortificano la cucina tradizionale, facendo enormi danni alla Cultura del Paese con le loro ridicole rivisitazioni. Sarebbe stato utile al contrario citare in questo contesto l’importanza della De.Co., la Denominazione Comunale di Origine inventata da Veronelli e applicabile a prodotti gastronomici e preparazioni culinarie, di cui certifica la tipicità basandosi su solide ricerche storiche e documenti ufficiali.
Bisognerebbe capire a chi si riferisca l’autore quando accusa di ignoranza gli “estremisti della tradizione”, i quali non si prenderebbero la briga di approfondire le origini ancestrali delle ricette. In realtà è proprio l’autore a dimostrare di non comprendere la valenza di una battaglia culturale in difesa di quelle “radici e identità” di cui parla Montanari, applicabili anche alla gastronomia tradizionale, la cui tutela rappresenta una lotta di civiltà le cui sfumature sembrano sfuggire alla sensibilità di Blanco.
Il volume riprende la sua credibilità quando evita sentenze incongrue e si rituffa invece nella documentazione storica.
Da annoverare anche un pizzico di compiaciuto gusto del macabro, nel riportare una delle prime ricette in cui viene citato il pomodoro, accanto a un ingrediente singolare, la carne umana: questa era presente nell’alimentazione delle popolazioni mesoamericane venute a contatto con i violenti e disumani colonizzatori europei, soprattutto i cattolicissimi spagnoli, ben più selvaggi degli antropofagi nella loro furia assassina indiscriminata. Ma queste considerazioni “morali” vengono lasciate dall’autore “ad altri lavori”.
Alla lunga trattazione sul pomodoro segue quella sullo zucchero, la cioccolata, le “dolcezze da prete”, la cassata spogliata della sua mitologia, nonché tutta quella produzione gastronomica legata alla ritualità religiosa e laica. Vengono indagate anche le complicazioni che il cibo ha portato nella vita monastica, visto il suo carico di voluttà e di tentazione in fieri.
I passi letterari riportati sono ghiotti sotto ogni aspetto, compreso quello lessicale e semantico, mentre la generosità di passaggi su tecniche e pratiche farà felice chi si cimenta con la cucina anche sul piano pragmatico.
In chiusura appare poco significativo il mémoire di Carlo Ottaviano e Simonetta Agnello Hornby, dal valore puramente sentimentale, lontano dai percorsi logici e dal rigore metodologico del resto del volume.
Volume che è prezioso, tanto per i semplici curiosi cui non teme di rivolgersi, quanto per chi è dotato da assetata curiosità di conoscenza: il testo ha la capacità di non chiudersi nella trattazione esaustiva, bensì di proporsi come volano di nuova indagine, affidata alla fame gnoseologica del singolo lettore. E muovere un appetito culturale è pregio non da poco.
Info: www.bonfirraroeditore.it