Vinitaly, le criticità
L’edizione 2017 del Vinitaly si è appena conclusa in quel di Verona e come ogni anno tutti gli operatori del settore, dai grandi buyer internazionali a noi poveri ristoratori, si sono recati in rispettoso pellegrinaggio a Verona Fiere. Un appuntamento obbligato a cui nessuno si sente di mancare. Vuoi per questione di mera immagine, vuoi per un semplice saluto ad amici e conoscenti che già una settimana prima iniziano a chiederti in quali giorni andrai. Un rito insomma, che si ripete ogni anno senza mai mutare troppo.
Si arriva, si sbuffa per le code chilometriche, i problemi di parcheggio e la connessione dati del telefono che muore inesorabilmente. Si fa lo slalom fra i bagarini, si impreca più e più volte per l’orda di gente non del settore già orribilmente ubriaca alle 3 del pomeriggio: chiedendosi come diamine fanno ad entrare ogni volta nonostante la stretta sui biglietti annunciata in pompa magna. Il solito rassicurante copione.
Il problema arriva quando si passa dalla forma ai contenuti. L’aumento degli espositori è costante edizione dopo edizione ma il numero degli assaggi interessanti, delle piacevoli scoperte e novità, è sempre minore.
Si gira, ci si picchia per qualche assaggio e sembra di avere sempre la stessa roba nel bicchiere. Prodotti sempre più standard, pensati per piacere a un pubblico il più eterogeneo possibile, strizzando pesantemente l’occhio ai gusti cinesi. Una grande sfilata di mega stand che fanno da ambasciatori delle nostre bollicine, con il prosecco a farla da monarca assoluto, grandi aree dedicate a Barolo, Barbaresco, Amarone, Chianti e… poco altro. Davvero poco altro.
Pare che il numero dei buyer stranieri sia aumentato, si vedono tantissimi asiatici con badge variopinti in effetti, ne sono felice, ma che immagine stiamo dando loro dell’enologia italiana? Davvero l’offerta del nostro paese, con i suoi oltre 700 vitigni autoctoni va poco oltre la selezione del reparto vini di una grande Esselunga?
Qualcosa è stato fatto in questa edizione, le aree ViViT e FIVI non erano più dei fortini isolati con ingressi separati come nelle scorse edizioni, l’accesso era libero e diretto, l’effetto riserva indiana in mezzo agli yankee era però ancora evidente. Come se fossero stati messi lì per dire “guardateli, non è vero che diamo visibilità solo alle grandi aziende”.
Grandi aziende che, fra l’altro, secondo Vinitaly rappresentano la vera eccellenza dell’enologia italiana. Questa edizione ha infatti visto la presentazione della loro nuova guida ai vini che vede al vertice Banfi e Marrone. Cosa che in me fa nascere ben più di qualche perplessità.
Insomma Vinitaly è una tradizione consolidata del paese ormai, probabilmente un’ottima vetrina per i nostri vini medi di gamma che devono scontrarsi ogni giorno sui mercati con le produzioni di Paesi emergenti come Cile, Australia, Nuova Zelanda e Sud Africa ma, a mio avviso, del tutto incapace di raccontare il movimento del vino italiano e la sua evoluzione. Non è un posto per appassionati o ristoratori che vogliono raccontare il proprio territorio distinguendosi dalla massa della distribuzione commerciale.
Per quello, ancora una volta, bisogna guardare a manifestazioni come Vinnatur, Vini Veri, Autochtona o il mercato FIVI di Piacenza. Decisamente meno patinate e internazionali, dove a volte si bevono vini assolutamente orribili, ma in cui si possono trovare bottiglie che raccontano un territorio. Assolutamente uniche, create in campo per esaltare un vitigno e la sua vigna e non in cantina dall’enologo per piacere a un pubblico il più ampio possibile.
Arrivederci al Vinitaly.
Info: Pagina Facebook “IGPizza”