Formaggi a latte crudo: identità territoriali o minacce per la salute?
Negli Stati Uniti quest’anno due persone sono morte a causa di un’infezione da listeria contratta dopo aver mangiato formaggio artigianale a base di latte crudo non pastorizzato. Una notizia che ha scosso l’intero mondo caseario riaccendendo un dibattito mai sopito, soprattutto nella vecchia Europa.
Va premesso che negli USA i regolamenti sulla produzione di formaggio a latte crudo sono meno rigorosi che in Europa ed è previsto soltanto uno standard che fissa in sessanta giorni l’invecchiamento necessario a bloccare l’eventuale sviluppo di un altro batterio nocivo, l’Escherichia coli. Stop.
Da noi invece c’è una lunga tradizione in merito, soprattutto in Francia, dove buona parte dei formaggi AOC vieta orgogliosamente nel disciplinare l’utilizzo di latte pastorizzato. Questo perché la pastorizzazione distrugge indubbiamente i batteri patogeni, rendendo più sicuro il latte, ma anche quelli positivi, necessari per trasformare il latte in formaggio.
In pratica rende il latte neutro, senza vita. Tanto che per ottenere formaggio occorre inserire successivamente in fase di caseificazione dei fermenti selezionati, spesso comprati a catalogo da qualche grande multinazionale del settore. Senza più la flora lattica originaria, figlia dell’ambiente circostante, del pascolo e del clima, si ottiene un prodotto anonimo, privo di legami con il territorio, replicabile in qualsiasi parte del mondo dall’Australia al Kilimangiaro.
Chiaramente questo è in contrasto con lo spirito stesso che ha creato la denominazione di origine controllata europea che mira a legare indissolubilmente un prodotto al suo territorio.
Questo i francesi e i loro consorzi di tutela lo hanno capito bene, i nostri purtroppo un po’ meno. In Italia sul latte crudo è stato fatto molto terrorismo psicologico. Ci hanno addirittura detto di bollirlo prima del consumo che è un’assoluta follia, in quanto a quel punto avremo un prodotto decisamente peggiore rispetto al normale latte termizzato che troviamo sugli scaffali del supermercato. Il quale già sottrae al latte molte delle sostanze chimiche responsabili dei suoi profumi e dei suoi aromi che ci permettono di apprezzare l’alimentazione degli animali al pascolo piuttosto che le caratteristiche delle diverse razze.
La ricetta del formaggio è sempre la stessa: latte, caglio e sale. Eppure nella sola Italia abbiamo oltre quattrocentocinquanta formaggi tipici ufficialmente censiti, tutti differenti fra loro. Come è possibile?
E’ proprio quel legame strettissimo che c’è tra formaggio e territorio a permetterlo. Italo Calvino scriveva: “dietro ogni formaggio c’è un pascolo d’un diverso verde sotto un diverso cielo”. Questo significa che anche se due formaggi fossero prodotti con le stesse identiche modalità di lavorazione e stagionatura ma con latte proveniente da due diversi pascoli, i due formaggi sarebbero diversi, ognuno espressione del territorio da cui proviene. Tutto questo non potrebbe esistere utilizzando latte pastorizzato.
Le normative europee sull’igiene, il protocollo Haccp e il controllo sistematico delle condizioni microbiologiche da parte delle autorità ci consente oggi di avere formaggi a latte crudo assolutamente sicuri. Non cadiamo quindi nella trappola di chi vuole demonizzarli e sacrificarli sull’altare di una standardizzazione industriale estrema, mascherata da richiesta di maggior tutela per la salute dei consumatori.
Tutta questa biodiversità andrebbe perduta per sempre e con essa secoli di cultura e tradizione casearia che il mondo ci invidia. Una cosa che non possiamo assolutamente permettere.
Info: Pagina Facebook “IGPizza”