Cantina Terracruda, autoctoni e antiche uve dal cuore delle Marche
Custodia della biodiversità, responsabilità sociale d’impresa, presidio della cultura agricola, sensibilità ambientale: tutte le virtù umane e aziendali che possiate immaginare sono concentrate nell’attività della Cantina Terracruda di Fratte Rosa, nella provincia marchigiana di Pesaro e Urbino.
L’esternazione della filosofia di produzione regala sussulti a chi vive il vino come atto di elevazione socio-antropologica.
A partire dalla scelta di “valorizzare solo i vitigni autoctoni che meglio esprimono l’essenza del territorio, avviando la produzione di vini Doc e recuperando antichi uvaggi locali, ormai quasi del tutto scomparsi”.
Si prosegue con il rispetto dell’ambiente che ha fatto adottare principi di sostenibilità ambientale così rigorosi da spingere Terracruda a “costruire la cantina sotto il livello del terreno, così da preservare la bellezza del paesaggio circostante ed ottenere, allo stesso tempo, un notevole risparmio energetico, mantenendo costante la temperatura lungo tutto l’arco dell’anno, in modo naturale”.
Una struttura concepita per giungere in un futuro prossimo a permettere che “le operazioni sui grappoli e la prima parte della vinificazione” avvengano sul tetto della cantina, “così da riempire le cisterne con il mosto per caduta, sfruttando la forza di gravità senza dover ricorrere a pompe a pressione, con il doppio vantaggio di un risparmio energetico e di una qualità più elevata”.
Come ci si aspetterebbe, la vendemmia avviene a mano, con severa selezione delle uve “in base alle reale maturazione e qualità”, riponendole in piccole casse per non stressare gli acini, i quali percorrono un breve tragitto per raggiungere la cantina ed essere lavorati immediatamente.
Per la vinificazione, i grappoli di uva bianca “vengono pressati interi, con una spremitura soffice”, mentre per i rossi si procede a lunghe macerazioni.
Tutto questo con l’intera struttura che si avvale soltanto di energia proveniente da fonti rinnovabili.
Qui perfino l’agriturismo abbracciato dai vigneti ha un afflato etico, offrendo la possibilità di “assaporare i cibi cotti lentamente nei cocci, per conoscere l’antica tecnica di lavorazione dell’argilla che, plasmata dalle mani esperte degli artigiani, si trasforma in terracotta”.
Ultima nota per la grande elegante discrezione di chi conduce Terracruda, i fratelli Luca e Maria Vittoria Avenanti che non evidenziano minimamente i propri nomi, rinunciando così al protagonismo, per dare invece spazio e onore al loro enologo, Giancarlo Soverchia.
I vini prodotti sono come capitoli della storia ampelografica secolare di questo territorio, derivanti da vitigni autoctoni che da tempo immemore fanno parte del genius loci, parte integrante di tale terra come di chi l’ha popolata nel corso del tempo.
A partire dal prodigioso recupero della Garofanata, rarissima uva probabilmente millenaria ma che era scomparsa, riportata in vita e tradotta in un magnifico vino bianco; ne abbiamo già parlato ampiamente in un nostro servizio, a questo link: http://www.storienogastronomiche.it/la-garofanata-rarissimo-autoctono-marchigiano-riscoperto-da-terracruda/.
Altra gloria locale, il Bianchello del Metauro, le cui uve, antico clone di Trebbiano, hanno un’origine che “si perde nella notte dei tempi”. Dà vita a perle enologiche, eppure è ancora poco conosciuto fuori dai confini di produzione.
Perle come il Boccalino, Bianchello in purezza vinificato in acciaio e affinato in bottiglia: il profumo è di frutta appena colta, mentre la freschezza è accompagnata da una mineralità zampillante. Al palato restituisce dolcezza e un’irresistibile nota di cedro candito.
Ancora Bianchello in purezza nel Campodarchi Argento, in cui la maturazione di una piccola parte del prodotto avviene “in barrique di rovere francese, di primo passaggio, sulle fecce fini (sur lies) per 12/18 mesi”: il bouquet rilascia stuzzicanti note carboniche, mentre al palato è denso, materico, con una nota amaricante che si innesta su un’interessante spalla acida. Nel lungo finale emergono agrumi come bergamotto e chinotto.
Ha storia più recente ma è egualmente identitario il vitigno Incrocio Bruni 54, creato nel 1936 da Bruno Bruni, all’opera per il Ministero dell’Agricoltura dal 1930 al 1950: è stato ottenuto “incrociando tramite impollinazione le varietà Sauvignon Blanc e Verdicchio”.
Oggi è “poco diffuso ed esclusivamente nella regione Marche”, tanto da avere rischiato di scomparire, ma Terracruda attraverso un progetto di ricerca ha ritrovato alcune barbatelle e le ha ripiantate in un piccolo appezzamento.
Colpisce il bouquet di canditi che si ripropone in bocca come glassa agrumata, mantenendo estrema misura nell’acidità.
Altro importante vessillo territoriale è il biotipo autoctono di Aleatico che qui era anticamente chiamato Vernaccia di Pergola: dà vita al Pergola Doc Aleatico Superiore, chiamato Lubaco.
Maturato “per 12/18 mesi in barrique di rovere francese di primo passaggio, a contatto con le fecce fini”, profuma intensamente di more di rovo. Il sorso è impregnato da una nota di cedro che innerva un profilo abboccato. Chiaro il sentore di melagrana, arricchito da spezie. Il corpo è notevole, stemperato da un tripudio di dolcezza floreale. Nel finale fanno capolino liquirizia e alloro, con un sospiro balsamico.
Le Marche sono ospitali anche con il Sangiovese e Terracruda lo sottolinea con il Profondo, un Colli Pesaresi Doc Sangiovese Riserva che segue la stessa tecnica di maturazione del precedente.
Delizioso il suo bouquet che diffonde bacche di vaniglia e fiori di gelsomino. Non meno squisito al palato, nettare pulitissimo dalla nitida dolcezza sottesa, con note di melagrana.Un trionfo organolettico che suggella un’impresa vitivinicola che in tantissimi omologhi dovrebbero prendere come esempio in tutta Italia, perché dà lezioni di agronomia, vinificazione e deontologia che andrebbero seguite ovunque, per tornare a un rapporto virtuoso con la Terra e con la nostra Cultura.
Info: http://www.terracruda.it/