Unico Milano, l’alta visione della cucina di Fabrizio Ferrari
La collocazione al ventesimo piano della WJC Tower in zona Portello non è soltanto spettacolo per lo sguardo, ma anche metafora per la mente, perché l’offerta gastronomica di Unico Milano vola alto, in ogni possibile declinazione semantica. Si innalza elegantemente sulle dispute che contrappongono la cucina creativa a quella della tradizione. Sorvola con understatement sulle guerre per ottenere stelle e riconoscimenti. Si eleva rispetto all’omologazione di quella ristorazione meneghina sempre più all’inseguimento della vacua meraviglia mariniana, invece di votarsi, come in questo caso, al buon gusto della concretezza.
Merito dello spessore intellettuale e dell’umanità di Fabrizio Ferrari, chef dai prestigiosi trascorsi stellati che, una volta approdato in questo nuovo contesto, ha deciso di liberare ogni istanza coltivata nell’animo, attingendo a tutte le proprie esperienze di vita per farne fonte di ispirazione, tra rimembranze della fanciullezza e omaggi a chi lo ha stimolato intellettualmente.
Ricatturando sensazioni olfattive e gioie gustative di una vita, Ferrari sta mettendo in tavola un’autobiografia che si mangia, sì, ma che al tempo stesso si vive pure in maniera dotta, attraverso il racconto orale omerico che fa dei suoi piatti, pagine immateriali che rendono epico il desinare.
Perché ci vuole un credibile afflato lirico per sublimare la cucina povera lombarda facendone suprema applicazione creativa, frutto della dichiarata missione di “recuperare il cibo perduto e i sapori radicati nella nostra memoria più profonda e trasformarli in piatti dal carattere distintivo e contemporaneo” attraverso l’impiego di prodotti del territorio “anche quelli oggi poco utilizzati”, alla ricerca “di tutti quegli elementi che stanno per essere dimenticati, ma che possono offrire grandi emozioni”, affinché la cucina possa diventare “un momento da dedicare alle nostre radici, sia territoriali sia individuali”.
Radici che per Ferrari affondano nei luoghi familiari in cui ha visto la luce, quella provincia di Pavia generosa nel dispensare stimoli sensoriali, mentali e spirituali destinati a rimanere indelebili per tutta la vita. Un radicamento così esteso da toccare diverse lande della Lombardia, sottraendole agli stereotipi della modernità industrializzata per ricondurle a un lirismo bucolico che mette insieme la poesia dei carmi virgiliani con un’iconografia idilliaca dalla serenità remota.
Le prime apparizioni in tavola sono prodromi di meraviglia.
A partire dalla selezione di pani fatti in proprio: grissino al riso venere di fragrante leggerezza, stuzzicante pan di spezie, seducente pan di cereali bruciati e semi di lino, appagante focaccina pugliese con pomodorino, soffici paninetti ai mugnoli o ai porcini e verbena, irresistibile cialda croccante alla cipolla.
Il primo snack conquista con un fantastico burro di malga in pomata, ben affiancato dal paté di olive taggiasche con pane caldo.
L’escalation prosegue con l’ amuse-bouche composto da un rotolino di magatello di manzo di delicata sapidità, una tartelletta di brisée alla crema di salmone e le sue uova con panna acida in cui si esalta la salinità marina, una spuma di pomodoro e polvere di bottarga di aerea densità.
Nella ciotola, una sensazionale crema di topinambur tiepida con patate viola in chips.
Per gli antipasti si recupera il termine latino di Gustatio che contrassegnava l’apertura dei banchetti degli antichi Romani, senza saccenteria bensì con consapevole colto richiamo storico.
In quest’area, irresistibile l’attrazione del Pani Cunzatu 3.0, etereo impasto imbibito con un’esplosione di robusti sapori mediterranei, ingentiliti dalla delicatezza del gambero.
Non meno attraente l’Uovo di Selva e crema di barlande e tuberi, crosta di pane e crema di Grana Padano Riserva, piatto di grande concretezza contadina, in cui l’uovo risalta con la sua purezza biologica: il richiamo alla terra natia di Ferrari è dato proprio dalle Barlande, erbe spontanee tipiche dei prati dell’Oltrepò pavese, in particolare della Lomellina.
Nel Menu Deg 4 Portate, il più esclusivo, le uova tornano prepotentemente per dare vita alle strepitose Due uova e una patata. Si tratta di “Patata di Borgonovo ripiena d’uovo al tartufo bianco e guscio d’uovo ripieno di crema di patata affumicata e Caviale Calvisius, crema di patata viola e dolce salsa di caviale e tartufo in brunoise”.
Portata dalla geometria euclidea, con due sfere tracimanti di ghiottoneria disposte (a)simmetricamente nel rombo del piatto, unite da una folgore cremosa, come a volere dare una scossa a una composizione di iconica classicità.
Ciò che ti arriva al palato è una sequenza di stimolanti scariche elettriche, come lampi che piombano sulla terra che nasconde i funghi ipogei o sulla superficie fluviale sotto il cui specchio nuotano gli storioni ovipari, ma già la semplice patata varrebbe il viaggio, mentre la qualità assoluta del tartufo bianco merita un plauso in tempi in cui poco si bada ai distinguo su questa materia prima.
Lo stesso menu sfodera altre meraviglie.
Come il Thermidor in un raviolo, attualizzazione di una ricetta francese tardo ottocentesca, qui usata più quale suggestione letteraria, la stessa che è parte della sua dibattuta leggenda.
Si tratta di “Aragosta cotta a bassa temperatura e condita con salsa Bercy chiusa in un raviolo e servita con una salsa Bisque, piccoli funghi e tartufo nero”: l’imponenza delle dimensioni della pasta ripiena e del condimento si rivelano in realtà scrigni di estrema raffinatezza, in cui si apprezza la perfetta cottura dei gamberi e ancora una volta la superba scelta dei tartufi.
Tra I piatti principali, diversi sono imperdibili.
Intanto la Buridda di gabilo semi crudo con pomodoro conservato, capperi e olive liguri e acciughe di Sicilia, pervasa di dolcezza lieve come un sospiro, grazie alla superlativa tenerezza del merluzzo bianco.
Quindi la Faraona, foie gras, tartufo e crema di broccolo romano all’aglio nero, in cui la carne numidide brilla per la consistenza magistrale frutto di una prodezza ai fornelli che la rende croccante fuori e rosata dentro, senza trascurare la golosità degli intingoli.
Se si ha il privilegio di potere parlare qualche istante con Ferrari, il quale in verità non nega a nessuno la sua cordialità empatica, lo chef ci metterà poco ad aprirsi a confidenze e narrazioni che conducono dritto alla sua memoria privata, ai ricordi infantili, ai sapori dello svezzamento alla vita.
Fondamenta umane che lui ha la rara capacità di tradurre in arte culinaria, inserendo sprazzi del proprio racconto di formazione nel menu, il quale assume così il fascino di un memoir ricco di emozione.
Non è un caso che si incontri il Menu Deg 5 Portate chiamato Bassa Padana, immersione nell’intimità di Ferrari.
Lo Storione nel suo guazzo è un tripudio di fitta carnosità, alimentata dalla cottura eseguita su un solo lato, con un magnifico condimento dalle suggestioni agrumate, cinto da una polenta croccante.
Il Maialino al cucchiaio si chiama così per annunciare la sua estrema arrendevolezza alla masticazione, perché in questo caso non è un modo di dire che si sciolga in bocca: preserva un carattere selvaggio, avviluppato da un condimento di salsa all’aceto e verza confit, sormontato da una vezzosa cotenna croccante.
L’omaggio più sentito, perfino accorato, alle origini e alle passioni di Ferrari, è però una preparazione alla quale è dedicata un’intera piccola sezione del menu chiamata letterariamente “…il riso, la pianariva natia”, esplicito tributo al quasi compaesano Gianni Brera (la nativa San Zenone di quest’ultimo un tempo era amministrativamente unita alla Costa de’ Nobili di cui è originaria la famiglia dello chef): a celebrare la penna sublime cui devono tantissimo lo sport come l’enogastronomia è il Risotto aglio, olio e peperoncino, un capolavoro assoluto della gastronomia italiana.
L’aglio è quello nero, frutto di una particolare lunga lavorazione che elimina le asperità dell’allicina e gli regala note dolci, mentre il peperoncino è quello calabrese ben piccante e profumato di Soverato (Catanzaro). Questo risotto inebria con i suoi toni torbati e il chiaro richiamo alla terra, scatenando gioia ancestrale. Un piatto di rara potenza organolettica, talmente radicale da rappresentare un atto di coraggio.
Altri capitoli con cui lo chef illustra il suo mondo sono il menu Col coeur in man che inneggia a Milano con quattro portate (Testina e nervetti in salsa verde, Risotto alla milanese, Manzo alla Stendhal, Tributo a Milano) e ancora un riferimento colto, il menu “flexitariano” denominato Vitto pitagorico, rimando ai dettami del filosofo e matematico Pitagora, vegetariano ante litteram.
L’onestà intellettuale dello chef si materializza nella scelta di lavorare in una cucina interamente a vista, simbolo della trasparenza totale di Ferrari e della sincerità del suo lavoro.
Abbiamo voluto approfondire la filosofia del lavoro di Fabrizio Ferrari, per questo gli abbiamo chiesto di esporcela davanti alla nostra telecamera, nel video qui sotto.
I dolci sono il regno di Beppe Allegretta, pastry chef dal rilevante percorso di formazione e dalle idee molto chiare, fermo sostenitore del rigore da applicare alla pasticceria nei locali di ristorazione. La ricerca di Allegretta è quasi metafisica, nel suo inseguire punti di equilibrio tra tutte le possibili venature del gusto, dal vegetale al fruttato, dall’acido al grasso, fino allo speziato.
Anche in questo caso aleggiano le origini di Ferrari, con la proposta della Pangialdina, biscotto identitario del Pavese, legato nel corso del tempo a diverse ricorrenze, accompagnato da ottimo mascarpone e dal Bargnolino, liquore di prugnolo selvatico.
Quest’ultimo è il Bargnolëin prodotto dalla Ryto di Gussago (BS), un’infusione “della bacca selvatica del Prunus spinosa raccolta rigorosamente a mano nei Colli Piacentini”, la loro zono vocata.
La creazione di Allegretta assume così i connotati di una scala di consistenze, un arpeggio di diverse tonalità di dolcezza.
La mano ispirata di Allegretta si esprime nella delicatezza suadente del pre-dessert, una passatina di cachi con spuma di yogurt e maggiorana…
… mentre il suo lavoro concettuale raggiunge la propria acme con Pensando a una cassata, in cui l’iconico dolce siciliano viene rielaborato in chiave contemporanea, assolutizzandone profumi e sapori, con la struttura che sembra un richiamo stilizzato all’architettura della Casina Cinese di Palermo, come un omaggio induttivo alla terra di origine della ricetta: diffonde effluvi di oli essenziali di bergamotto dal solubilissimo sorbetto alle varie croccantezze di pistacchi (in biscotto) e mandorle (in pasta).
La carta dei vini conferma l’impostazione colta del locale e regala diverse sorprese. Indice di alto livello sono presenze come i vini in anfora di Gravner e gli autoctoni di Les Crêtes, Walter Massa, Marisa Cuomo e Ar.pe.pe.
Il percorso è vario e in questo è validissimo il supporto del sommelier Davide Valerio, veramente interessato a capire le preferenze del cliente invece di imporre le proprie, dote rara nella categoria.
La meticolosità della ricerca si palesa nella presenza di uno dei rari champagne di Pinot meunier in purezza, l’eccellente Cuvée Desire di Marguerite Guyot: il bouquet è intriso di una nota carbonica che si intreccia con uno spirito floreale esuberante tale da annunciarne la diversità, il perlage è fine ed elegante, mentre al palato una lieve abboccatura spinge sentori di papaya e di albicocca essiccata, acclarando una grande originalità.
Tra gli altri assaggi, spicca il Grüner Veltliner di Strasserhof: al naso esprime una mela verde che si ritrova in bocca, con gradevole sorso fruttato dal piglio gentile.
Da sottolineare infine la democraticità di alcune opzioni che rendono possibile a tutti di godere l’esperienza di Unico Milano, come i menu per il pranzo a partire da 23 Euro con acqua e caffè inclusi, mentre è un’evocazione proustiana il brunch che torna essere il rituale Pranzo della Domenica, con tante portate servite e un caloroso “goloso buffet dei dolci al tavolo in cucina” che ricrea il senso della tavola come luogo d’incontro.
Degna pennellata conclusiva di un affresco a tinte cangianti ma coerenti che riesce nell’impresa di essere all’altezza di un appellativo impegnativo come Unico.
Nel video che segue, abbiamo raccolto le sensazioni visive che Unico regala, a partire dalle creazioni culinarie.
Info: http://www.unicorestaurant.it/