Bonzano Vini, dal Monferrato la linea “pop” e giovane di una grande famiglia enoica
Sono già poche le aziende vitivinicole consapevoli del proprio ruolo culturale in senso lato, ancora meno quelle la cui esuberante generosità produttiva è pari all’accorata missione divulgativa, raggiungendo così l’esclusivo empireo del vigneron filantropo, una benedizione per il territorio d’elezione che grazie alla sua presenza può contare sulla più appassionata tutela sposata alla valorizzazione: una vetta di vertiginosa elevazione etica e professionale nella quale risiedono i Bonzano che oltre a illuminare da qualche tempo il Monferrato con il prestigio del brand Castello di Uviglie continuano a nobilitare quest’area vocata del Piemonte pure con il marchio di famiglia.
La sede risale ai primi dell’Ottocento e si trova nella Tenuta Mandoletta sita nel comune di Casale Monferrato, in provincia di Alessandria, la quale conobbe una svolta quando nel 1898 passò a un nuovo proprietario che decise di espiantare i vigneti che ne erano il tratto distintivo.
Una ferita sanata negli anni Novanta con l’arrivo della famiglia Bonzano che “diede impulso a importanti lavori di recupero finalizzati al ripristino dei giardini storici e, nel 2011, all’impianto delle vigne: oggi la Mandoletta è una tenuta circondata da un corpo unico di 20 ettari di vigneti, incastonata nel paesaggio più tipico del Monferrato casalese”.
Un progetto ambizioso condotto dai fratelli Bonzano in collaborazione con l’enologo Donato Lanati e Simonetta Ghia “moglie di Enrico Bonzano e titolare dell’azienda vinicola” che ha “incoraggiato e promosso la nuova avventura imprenditoriale con la sua profonda passione per il mondo del vino”, in un territorio “composto da suoli calcareo-argillosi che nasconde nelle sue profondità gli antichi infernot scavati nella Pietra da Cantoni, risalente a oltre 20 milioni di anni fa”.
La sensibilità dei Bonzano scorre come fiume impetuoso e sfocia anche nei territori dell’arte contemporanea, come racconta l’apparato grafico della sua produzione: il logo è una stilizzazione “insieme della meridiana che campeggia sulla facciata della Mandoletta e delle ramificazioni di un albero genealogico”…
… mentre sono ispirate alla Pop Art degli anni Settanta le etichette che “giocano con decori geometrici e colori accesi per dare carattere a ogni vino: un obiettivo di modernità, che tuttavia si integra con la tradizione, tanto che tutti i prodotti hanno nomi che rievocano sia il dialetto monferrino che storie e luoghi legati alla famiglia”.
Sono le premesse per una produzione di eccellenze.
Più che motivato il ricorso a una definizione semantica arcaica per Hosteria, il vessillo liquido della casa già avviato allo status di classico senza tempo attraverso l’evocazione di uno spazio dell’anima prima che fisico, quel luogo in cui la mescita dell’ambrosia popolare muta in laica transustanziazione del vino in gioia del quotidiano, miracolo democratico celebrato in un tempio della convivialità il quale “per tutto” il Novecento è stato un luogo di ospitalità vera, fatta di incontro e amicizia”.
Incontro e amicizia si concretizzano anche nel tino nella mescolanza di due simboli ampelografici di nazioni enoiche solitamente confliggenti, la Francia con il fregio del Pinot nero e l’Italia che si riconosce nel rosso ematico profondo della Barbera, un brodo culturale primigenio dal quale zampillano al naso umori di terra tra muschio bagnato, piante perenni e una lieve nota di tabacco dolce dominicano.
All’arrivo in bocca si afferma con irruenza il suo spirito materico rendendolo quasi masticabile, in un intreccio tra carattere zuccherino e mitigazione erbacea non in contrapposizione all’inevitabile rivelazione della sua possenza alcolica.
Intanto sulle papille saltellano lieti richiami a gelso nero, prugna, amarena sotto spirito, sorbo, corbezzolo, fino a un imprevedibile tocco di arancia rossa della cultivar Sanguinello.
Chi a questo punto dovesse comprensibilmente essere rimasto ossessionato dal richiamo a mo’ di sirena omerica di tal Barbera del Monferrato, correrà a tirar via il tappo al Gajard che quest’uva propone in purezza.
Sotto una denominazione a uso di spoiler, dato che Gajard in dialetto piemontese significa vigoroso ed esuberante, il vino mantiene le promesse nominali con un potente caldo bouquet di vaniglia del Madagascar, crema di burro e spezie quale il cardamomo, mentre al palato è tutto un magma sensoriale di gelso nero, cioccolato al latte, melagrana, marasca, barbabietola e composta di lampone.
Carnoso e carezzevole in un tutt’uno, dispone di una beva favolosa grazie all’osmosi di impronta abboccata e vivida acidità.
Stessa uva ma questa volta di status Superiore nel Bruno Bonzano realizzato “con la migliore selezione di uve Barbera, raccolte a mano in cassetta, provenienti interamente dalla vigna denominata Vigna Mandoletta della tenuta Mandoletta di Casale Monferrato: vino affinato due anni in barriques e tonneaux, rappresenta la summa delle potenzialità enologiche di Bonzano vini, per questo motivo l’etichetta è dedicata al capostipite di famiglia, Bruno Bonzano” nelle cui note degustative si riporta “di colore rosso rubino molto intenso, racchiude aromi di frutta rossa e spezie dolci: il sorso avvolge morbidamente l’intero palato, buona persistenza e freschezza”.
Come un’antica pittorica Teoria dei Santi, l’affresco degli eternabili rossi della prodigiosa famiglia Bonzano si chiude con la sua figura più misteriosa e riservata, lo sfumato Grignolino del Monferrato Casalese il quale invece nel Baticör si accende di cromatismi abbaglianti, sciabordando nel bicchiere schegge visive di color carminio che nella roteazione del bevitore sapiente scatena un vortice estetico in grado di creare una mistura tra arabeggiante rosso cremisi e il peccaminoso scarlatto della letteratura ottocentesca.
Superata la sindrome di Stendhal dell’osservazione fenomenica, giunge il momento del godimento dei sensi con i sapori di fragola, ribes rosso, ciliegia candita e karkadè, legandoli con un iniziale accenno di gradevole acidità la quale lascia presto il posto a un ammaliante riflesso dolce, lo stesso che si prolunga nel finale tra equilibrio e rapimento.
La potenza della bacca rossa bonzaniana si stempera in suadente eleganza nel rosato Meridiana, un Monferrato Chiaretto che non lesina la fragolina di bosco all’olfatto ma, ripudiando la banalità, vi associa delle erbe officinali come se dietro ci fosse l’alchimista di una spezieria dagli intarsi barocchi.
La lingua del degustatore diventa così una passerella sulla quale sfilano emozioni in guisa di lampone, papaya, azzeruolo e dulce de membrillo.
Qui la spudoratezza saccarifera caratterizza il sorso fino a un’esaltazione ecumenica che non risparmia alcun assaggiatore, assoggettandolo alla sapienza dell’enologo nello stregare ogni predisposizione al gusto.
Il passaggio alla bacca candida segna la conferma di quella rivoluzione copernicana che vede vini bianchi piemontesi in crescente successo in una terra tradizionalmente di grandissimi rossi, un singolar tenzone privato di senso anche grazie a capolavori come quelli della famiglia Bonzano che impiegano vitigni francesi come testimonianza di millenaria relazione antropologia e prologo a un calice pacificante.
Vibra di suggestioni leggendarie il Genevieve che prende il nome da quella Madame Gavine “avvenente donna di cabaret” che “secondo quanto riportato dal Barone Emilio Vitta, antico proprietario della tenuta Mandoletta” qui apparve in eterea forma di fantasma il 3 di gennaio, giorno di Santa Genoveffa, sulle scale “che portano alla centrale cupola ottagonale, sorseggiando vino da un bicchiere di cristallo che successivamente getta a terra”. A fare chiarezza storica interviene lo storico monferrino Idro Grignolio secondo il quale “Geneviève fu l’amante sia del padre di Emilio Vitta sia del cav. Veglio che, vicino alla Mandoletta, si era fatto costruire una rotonda torre garçonnière”: la protagonista di cotanto passionale feuilleton però non si sottrasse all’inevitabile destino di rubacuori dal triste epilogo e infatti “scomparve in circostanze misteriose e qualcuno azzarda l’ipotesi che sia stata buttata nel pozzo della torre Veglio in un impeto di gelosia da uno dei due amanti”. Alla Bonzano a quanto pare nessuno soffre di paure infantili per il soprannaturale e così dedica apertamente tale etichetta “alla bella donna che torna ogni anno a trovarli alla Mandoletta, per sorseggiare un buon vino”.
Questa narrazione va a liquefarsi nel bicchiere sprigionando trame olfattive di pompelmo e mandarino, mentre il testo dell’esame orale dipana una prosa incalzante di sensazioni punteggiata da cedro di Diamante, genziana, nespola, rosa canina, mela annurca e kumquat.
Il colpo di scena finale è rappresentato dal suo virare all’agrumato netto, prima ben nascosto da un sorso solido nel bilanciare la significativa spalla acida con la spinta aromatica: infatti, malgrado la muscolosità alcolica, mantiene un’eleganza serena come l’Olimpo dei grandi vini.
Due le peculiarità assolute di questo vino sagacemente complesso: manifesta la propria ghiottoneria scatenando un interminabile salivazione, ma soprattutto palesa una più che rara capacità di piacere da matti a tutti, ma proprio tutti, perfino a chi non beve abitualmente rasentando l’astemia.
L’Armognan, blend di Chardonnay e Sauvignon, facilita il lavoro dell’analista con un nome mutuato dal termine dialettale che indica l’albicocca, quindi tocca trovarlo questo frutto, tra i descrittori in cui prevale la zagara e la degustazione che maieuticamente dopo l’attacco di sublime aspra freschezza del limone Verdello evince ananas, olivello spinoso, ruta e alchechengi.
Ancora acidità in evidenza associata alla golosità e a una freschezza fenomenale che lo rendono insuperabile a tavola in abbinamento a portate di pesce.
Doveroso trionfo in chiusura da riservare al Mandoletta, spumante sgorgato dall’assemblaggio di Pinot Nero e Chardonnay che apre i fuochi d’artificio con un entusiasmante bouquet agrumato arricchito da scie floreali e bagliori balsamici, ammorbidendo questo approccio quasi dadaista alla gioia del bere quando la disamina passa alla scansione organolettica del palato che intercetta clementina, mango, annona, banana e pompia candita, con un seducente innesto dell’eleganza del tè bianco.
La verve titillante del suo brioso anelito petillant è preludio di una beva strepitosa poggiata sul piedistallo dell’acidità, ma a essere definitivamente irresistibile è un sorso cremoso che conduce fino a un Nirvana nell’appagante accezione di Schopenhauer.
Una simile articolata preziosa vicenda vitivinicola merita un approfondimento da parte di chi ne è protagonista, come Francesca Bonzano che di Castello di Uviglie e del brand di famiglia è Marketing & Communication Manager: possiamo ascoltarla nel video che segue.
Info: https://www.bonzanovini.it/