Checchino a Roma, dal 1887 la cucina romana popolare
La cucina romana del quinto quarto è nata qua. Idealmente e in buona parte anche concretamente. Alcuni piatti per cui la Roma culinaria è conosciuta nel mondo, sono stati concepiti in questa Osteria o comunque qui hanno raggiunto per le prime volte le tavole degli avventori. Per questo l’osteria di Checchino è il monumento imprescindibile della cucina tradizionale della città.
Basta guardare la sua collocazione per evincerne l’intera storia: è infatti situata proprio di fronte all’ex macello di Testaccio, in via di Monte Testaccio 30, posizione che spiega il suo essere votata alla cucina del quinto quarto, “un assurdo matematico (i quarti di un animale sono 4) per indicare quella parte in più che pesa come un quarto nobile”.
Era ancora il XIX secolo quando dal mattatoio uscivano i lavoratori affamati dopo ore di lavoro massacrante. In mano avevano gli scarti della macellazione, i quali rappresentavano il compenso in natura per la giornata di fatica. Attraversavano la piazza e andavano nell’osteria di fronte. Qui chiedevano all’oste di cucinargli quelle parti considerate meno nobili delle bestie vaccine, ovine o suine che avevano macellato: soprattutto interiora, come trippa, rognoni, cuore, fegato, milza, ma anche gli zampetti e la coda.
Quei lavoratori si chiamavano vaccinari e già si spiega l’etimologia di un piatto simbolo della romanità. Quell’Osteria era proprio Checchino, lì dal 1887. Dalla fusione di questi due elementi è nata la cucina romana come la conosciamo oggi.
Questa epopea culinaria è raccontata oggi dai pronipoti dei fondatori del locale nel loro sito (www.checchino-dal-1887.com), quando ricordano che “il quinto quarto era dato come aggiuntivo di paga ai lavoratori più umili del Mattatoio, i cosiddetti scortichini o vaccinari quei macellai che scorticavano, scuoiavano le bestie, le dividevano in mezzene (metà di una bestia) e le spostavano a spalla. Questi lavoranti presero l’abitudine di portare questa retribuzione in natura, nelle osterie vicino al mattatoio per farla cucinare. Nacquero e si svilupparono così, piatti come la coda alla Vaccinara e i Rigatoni con la pajata (intestino digiuno del vitello). Della coda alla vaccinara Marina, Elio e Francesco Mariani, propongo ancora la ricetta originaria, lievemente alleggerita rispetto a quella codificata secondo l’estro della bisnonna Ferminia, figlia dei capostipiti”.
Quando entri nel locale, l’imponenza di questa storia enorme e unica si fa avvertire: la semplicità geometrica della sala del servizio spande sacralità come certi templi di antichi culti, quelli in cui fai attenzione a camminare, lentamente, per assimilarne il fascino antico e l’aura sacrale.
Sensazione amplificata dai modi solenni con cui ti accoglie Francesco Mariani, la cui cortesia ieratica ti trasmette lo spessore culturale di questo locale veramente storico.
Come se non bastasse la straordinaria vicenda della genesi della sua cucina, in questo locale perfino i muri trasudano Storia: “non si deve dimenticare che grazie alla sua collocazione all’interno di un Monumento Storico Archeologico Italiano quale il Monte Testaccio, detto Monte dei Cocci, Checchino è potuto entrare a far parte dell’associazione Locali Storici d’Italia e d’Europa. Il Monte Testaccio è detto dei cocci perché e appunto fatto con cocci, pezzi di anfore dell’epoca Imperiale e Repubblicana dell’antica Roma, accatastati qui dai mercanti dell’epoca”.
Una stratificazione di vicende storiche anche nelle fondamenta del locale, dunque, come si avverte chiaramente quando visiti la cantina, letteralmente scavata tra i cocci di Monte Testaccio: emozione indefinibile fare appena due passi nel ventre dell’osteria e trovarti improvvisamente a contatto con l’Antichità, con davanti agli occhi increduli questo spettacolo archeologico che si staglia dietro le bottiglie di pregio del locale.
“Checchino ha la fortuna di avere la cantina scavata dentro il Monte Testaccio, e ciò significa un ambiente eccezionale per lo stoccaggio dei vini e la possibilità di mostrare al cliente turista un ambiente unico al Mondo. Se andate da Checchino non dimenticate di chiedere ai Mariani di mostrarvi questo piccolo tesoro Romano, carico di atmosfera e cultura, sarà per loro un piacere accompagnarvi”.
Ancora storditi da un locale che insieme a una somma cucina offre anche una visita archeologica, abbiamo chiesto lumi a Francesco Mariani sull’offerta di vini del locale, vista la meditata e colta carta dei vini .
Ci rendiamo conto che abbiamo già riempito pagine di entusiasmo con questo racconto e ancora non abbiamo parlato della cucina, la quale non è certamente da meno. E’ che da Checchino non si va (soltanto) per mangiare, ma per vivere un’esperienza tra le più complete che la ristorazione italiana possa offrire, autentica cultura del cibo in ogni sua declinazione, curata con lucida consapevolezza dai colti e appassionati fratelli Mariani.
Lo capisci fin da quando ti siedi al tavolo e trovi un biglietto con l’invitante proposta di una verticale tra i vini che il noto enologo Riccardo Cotarella con la sua azienda Falesco ricava da uno dei pochi vitigni autoctoni laziali, il Roscetto. Proviamo il metodo classico: si presenta con una bollicina fine, mentre al palato spicca subito una notevole sapidità, con una dolcezza ben bilanciata dall’acidità, mentre se ne afferma il carattere minerale.
Francesco Mariani, sommelier come il fratello Elio che sta in cucina, consiglia vivamente questo Roscetto spumeggiante sul primo dei piatti che giungono a tavola, l’insalata di zampi: ha ragione, perché i sentori floreali dell’uva si sposano benissimo con l’importante nota aromatica che deriva dalle erbe della preparazione, la quale si afferma per la tenerezza della materia prima e la pulizia del gusto.
Questi “nervetti della zampa di vitella bolliti, disossati e serviti tiepidi in insalata con sedano, carote, fagioli borlotti e conditi con salsa verde” sono l’introduzione del Menu degustazione storico, pensato “per chi ama la tradizione” e “realizzato con i piatti che hanno contribuito a rendere famoso Checchino dal 1887”.
Prima di proseguire, affiora dalla cantina un Poggio Verde, Frascati Superiore di Principe Pallavicini: al naso aleggiano frutti esotici, mentre al palato colpisce l’equilibrio tra la delicata sapidità e una nota di mandorla amara fresca che ricorda la Pizzuta d’Avola.
E’ il viatico per un duetto che è la pura essenza di Roma in tavola, servito in un piatto predisposto per questa esperienza. Da una parte, i bucatini alla gricia di stuzzicante sapidità, esaltata dalla croccantezza del guanciale e dall’amalgama con ottimo pecorino romano.
A fianco, la pajata è fatta come Roma comanda: compatta, senza fronzoli, sa proprio di rione Testaccio… Come i cultori sanno, la pajata è “una salsa realizzata con pomodoro e intestino digiuno di agnello da latte con una spolverata di Pecorino Romano”, in cui l’ottimo contributo di acidità di un buonissimo pomodoro si adagia sulla perfetta cottura dei rigatoni.
Inevitabile a questo punto l’entrata in scena di un rosso autoctono laziale, il Cesanese del Piglio, impressionante al naso, dove sprigiona pepe e visciole: in bocca i tannini dialogano con marasche acerbe.
Tutto è pronto per sua maestà la coda alla vaccinara, qui dove la ricetta è stata codificata: infatti è nella sua massima espressione, tenera da sciogliersi, mentre il poco ma coriaceo grasso la rende molto golosa, con il contributo di un sugo clamoroso. La ricetta è dichiarata anche nel menu: “coda di manzo stracotta per circa 5 ore in salsa di pomodoro con sedano, pinoli, uva passa e con una spolverata di cioccolato amaro”.
Non passa in secondo piano la cicoria saltata, la migliore della città, altro che contorno: si sente l’aglio, finalmente! E il fatto che l’aglio lo si trovi pure in pezzi, è un atto di resistenza culturale contro quei beceri ristoranti che si dichiarano “aglio free”.
La ricchezza di questa verdura chiama a volontà l’accompagnamento con il buonissimo pane del locale.
Intanto sempre da Principe Pallavicini arriva un vino da un vitigno internazionale che nel Lazio ha trovato una delle sue zone di elezione italiane, il Syrah: è morbido, vellutato, di grande eleganza pur nell’imponenza, fino a un finale prolungato in cui rilascia un pizzico di dolcezza.
Fuori dal menu che stiamo seguendo, chiediamo di provare un piatto non meno storico, non più cittadino bensì appartenente alla cultura contadina laziale: il garofolato di controgirello, “uno dei migliori tagli di coscia”, “piatto robusto che prevede la lardellatura della carne con le fettine di guanciale, quindi la manipolazione con la mistura di sale fino, pepe e aglio” (www.buonricordo.com). E’ un piatto nato nelle campagne che prevede di nascondere con il forte aroma dei chiodi di garofano l’afrore delle bestie macellate a fine vita. Questa carne consistente dà vita a una ricetta priva di alcuna ruffianeria, densa e misurata: non un piatto goloso, anche perché non vuole esserlo, bensì una pietanza che ci ricorda divinamente lo scorrere del cerchio della vita anche a tavola.
Per avviarci alla fine, una piccola grande gloria enoica misconosciuta del Lazio, la meravigliosa Malvasia Puntinata, qui in una perfetta versione sempre di Principe Pallavicini che regala sentori di mela cotogna. Merita un plauso il magnifico lavoro che sta facendo quest’azienda collocata a Colonna, il più piccolo comune della zona dei Castelli Romani: azienda storica dell’enologia laziale, sta rinverdendo il suo secolare prestigio (www.principepallavicini.com).
Prima di abbandonarci al dolce, obbligato l’assaggio di due scaglie di pecorino romano, uno fresco e l’altro stagionato, con il primo che sorprendentemente svetta sul secondo, soprattutto se intinto nell’ottimo miele.
Una fetta di torta di ricotta e cioccolato dai grandi ingredienti viene accompagnata dal Passirò, bianco passito ancora di Roscetto, sempre di Falesco: la sua dolcezza aromatica non è eccessiva, si imprime per il finale persistente che ricorda il miele di sulla. Il sito del produttore racconta che “il Roscetto è un vitigno autoctono laziale concentrato esclusivamente nel territorio comunale di Montefiascone e nelle aree collinari adiacenti al Lago di Bolsena. Prende il nome dal colore della sua buccia, che cambia con l’avanzare della maturazione da verde a giallo, da giallo a rosa e, come da studi sul DNA effettuati dal Prof. Attilio Scienza, deriva dalla famiglia delle uve Greco” (www.falesco.it).
Sempre di Falesco la Grappa Montiano, una barricata di Merlot in purezza che presenta un curioso retrogusto erbaceo e un tono quasi balsamico.
Una magnifica sinfonia di sapori orchestrata da un servizio eccellente, per l’elegante cortesia non affettata di tutto lo staff.
A questo punto attraversiamo la sala, salutiamo Marina Mariani e puntiamo alla cucina, dove si trova il fratello Elio, orgoglioso nel suo ruolo di cuoco e al tempo stesso di custode della memoria familiare. Ascoltarlo, riconcilia con la gioia della cucina semplice di una volta, mettendo a nudo la follia degli innovatori a ogni costo e facendo risaltare la stratosfericamente superiore dignità della cucina di tradizione.