Dalla ricciola al maialino, il Giappone di Wicky a Milano
Le onde, i profumi, la luce riflessa e l’acqua. Wicky’s è un’esperienza totale perché Wicky Priyan ha portato a Milano non solo la cucina giapponese, ma un’esperienza estetica, culturale e antropologica parallela. La tradizione e la sperimentazione, la materia prima che non può che venire dal Giappone e contaminazioni coerenti con l’Italia e il suo Sud.
Ambiente che vira dal legno naturale alla terra nell’elegante e sobrio ristorante di corso Italia 8, un menu bistrot a pranzo (da 30 euro) e le degustazioni al tavolo (98) e al banco (150), per pochi, dove lavora il maestro: le onde.
È un alfabeto diverso, una cucina che nasce nelle grandi scuole di Kyoto e di Tokyo, dall’incontro con un ingrediente. Prende uno spicchio d’aglio, lo tocca, lo schiaccia con dolcezza, aspetta l’evoluzione del profumo che gli lascia sulle mani, chiude gli occhi e immagina un lungo viaggio a ritroso nel tempo, altri ingredienti, altri profumi, altri sapori.
“La ricetta arriva quando lo decide il cuore, anche dopo due o tre anni”. Colori, contrasti, consistenze, quel che ha imparato da Keller a Bali, da Kan a Tokyo e da Kaneki a Kyoto. “Le loro parole e i loro gesti. La grande famiglia dalla quale ritorno ogni anno, per ascoltare e imparare. Vedi il mio sous chef del sushi, lavorava da Kan (e mi mostra la foto)”.
Se non capisci la sua anima non potrai capire i suoi piatti. La ricciola giapponese ha un profumo più delicato, come la bottarga di merluzzo, il paté di olive di Pianogrillo (Ragusa), capperi di Pantelleria e la sua salsa di soia con pepe nero. Un carpaccio sorprendente. Passaggi. “La stessa ricciola ma dal sapore più forte, la ventresca l’extravergine agrumato di yuzu, l’equilibrio capovolto: qui è forte la carne, prima la salsa”.
Il tonno ala rossa del Mediterraneo è in salsa pepe Punjab, senape giapponese, semi di sesamo e verdure croccanti, “l’umami del pesce – spiega – è dato dalla frollatura. Nelle salse uso agrumi come il kabosu, simile al lime, e lo yuzu, simile ai siciliani, l’umeboshi, la sapida prugna giapponese, la cipolletta di Tropea, il mio ketchup di barbabietole, una prugna fermentata un anno”. Aggiunge: “Le cucine italiana e giapponese non sono così distanti perché partono entrambe da sei basi contro le 65 indiane, 42 thai, 84 vietnamite e 112 dello Sri Lanka. Dal rispetto per la materia prima e la tradizione”.
Info:www.wicuisine.it
Tratto dal quotidiano Il Giorno del 16 luglio 2016