Il Museo della prima guerra mondiale di Forte Belvedere a Lavarone in una fortezza austro-ungarica
Un monumento di una opulenza materica quanto metaforica tale da farne sineddoche di un’epopea circoscritta dalla Storia e allo stesso tempo di un’indole imperitura dell’Umanità, progettato con un’altezza di Pensiero tradotta in rispetto filosofico e gestito con una puntualità scientifica assurta a linguaggio universale: il Museo della prima guerra mondiale ospitato dal Forte Belvedere a Lavarone è un miracolo di istanze, urgenze ed epifanie che con coraggio si è preso mille rischi deontologici pur di offrire all’utenza un racconto necessario che necessariamente ogni cittadino del mondo dovrebbe venire a conoscere qui in Trentino.
Un tempo noto come Werk Gschwent, quello oggi conosciuto come Forte Belvedere è stato realizzato “tra il 1908 e il 1912, poco lontano dall’abitato di Óseli, su uno sperone di roccia calcarea (a quota 1177 m) che sporge a strapiombo sulla Val d’Astico, vallata che all’epoca sanciva il confine di stato fra Regno d’Italia e Austria-Ungheria”.
Dal punto di vista architettonico la spigolosità geometrica tranchant sembra suggerire il carattere respingente della sua missione alla luce della sensibilità odierna, mentre la successione stentorea di grandi volumi appare quale metafora dell’assertività del fenomeno bellico quale unica soluzione pragmatica ai conflitti d’interesse d’ogni epoca. Tornando al pragmatismo funzionale però quei raggelanti blocchi scavati nella montagna in realtà avevano il compito di ospitare “la casamatta principale – che ospitava alloggiamenti, magazzini, servizi logistici – il blocco batterie in posizione avanzata, un’opera di controscarpa nel fossato e tre avamposti corazzati”, tutto programmato strutturalmente “per resistere ai più pesanti bombardamenti” anche per diversi giorni disponendo “di ampi depositi, di un acquedotto munito di potabilizzatore, una centrale elettrica interna, un pronto soccorso per gli eventuali feriti, una centrale telefonica e una stanza di telegrafia ottica per poter comunicare con l’esterno”.
Se oggi lo possiamo visitare è perché “diversamente dalle altre fortezze degli Altipiani, per decreto regio di Vittorio Emanuele III, Forte Belvedere si salvò dalla demolizione ordinata dal governo fascista in tempo di autarchia”, per poi passare dopo la seconda guerra mondiale “alla Regione Trentino Alto Adige e nel 1966 ad un privato che, con lungimiranza, lo ripristinò parzialmente trasformandolo in un museo” successivamente acquistato dal Comune di Lavarone con il contributo della Provincia Autonoma di Trento.
A condurre verso questo gioiello museale di rara valenza anche sociale e civile è stato il concepimento di un allestimento che nella sua dichiarata missione vuole e riesce a essere “un moderno e aggiornato museo storico (testi in italiano, tedesco, inglese) con fini divulgativi e didattici, dedicato non soltanto a Forte Belvedere e alle fortezze degli Altipiani, ma anche alle più ampie problematiche locali e internazionali della prima guerra mondiale”, impreziosito dal sempre puntuale ed efficace intervento dello Studio Azzurro di Milano che consente di rivivere “il dramma della guerra attraverso una serie di installazioni multimediali interattive che rievocano scene di vita quotidiana all’interno della struttura durante il conflitto; un’esperienza emotiva che vuole far riflettere sull’orrore di una delle guerre più sconvolgenti di sempre e un monito di pace per le nuove generazioni”.
Esemplare in questo senso la sezione chiamata La Fortezza delle Emozioni che propone “ambienti sensibili multimediali per architetture di guerra in tempo di pace”, articolata “in una serie di installazioni interattive”.
L’esposizione è organizzata su tre livelli: le sale del pianoterra “dedicate alla spiegazione delle origini e particolarità del sistema dei forti degli Altipiani”, il primo piano in cui “sono delineate le operazioni militari e gli eventi bellici che videro protagonisti gli Altipiani” e il secondo piano incentrato sulla Prima Guerra Mondiale nell’intento di spiegarne le cause e “una sintetica cronologia della guerra europea, con approfondimenti riservati alle modalità della guerra di trincea, alla vita quotidiana dei combattenti, alla guerra industriale, alla propaganda e alla memoria del conflitto”.
Formidabile la consapevolezza da parte della struttura della propria collocazione museologica, nel momento in cui con acuta riflessione afferma che il forte “è già un reperto museale, è in pratica il museo di se stesso”. Un’affermazione di ammirevole sintesi che svela la mente illuminata di chi ha contribuito ai criteri espositivi adottati, resistendo alla (immaginiamo) terribile tentazione di sovralimentare l’epica della pugna e di giocare facile sull’eroicità espansa di quella che (ricordiamolo) viene ancora chiamata la Grande Guerra, la “vera guerra” come viene definita perfino in un film leggero come Il vigile diretto da Luigi Zampa e interpretato da Alberto Sordi.
Così, invece di rincorrere la retorica della gloria con un rischioso affollamento di reperti deperibili, con estrema intelligenza invece la curatela opera per sottrazione usando gli strumenti della ragione, del buon senso e del rigore epistemologico.
Si lascia in questo modo che muri, ambienti e passaggi del forte parlino da soli, assurgendo a simbolo muto e rarefatto del frastuono mortale che qui echeggiava, raffreddando una materia ancora incendiaria e divisiva per offrirla alla più serena delle speculazioni intellettuali, offrendo al visitatore il tempo e la possibilità della maturazione di una propria idea sulla più grande tragedia ricorrente della propria specie.
Merita un plauso accorato quindi la rinuncia del museo ad appesantire con urlate istanze morali ciò che la narrazione oggettiva già di suo evidenzia, lasciando che sia la cronaca oggettiva a farsi messaggio etico.
Scansato il pericolo della sovrabbondanza di residuati di memorie belliche magari destinati a essere aggrediti dalle condizioni termiche non ideali dell’edificio, a partire dall’umidità, emerge invece la somma virtù della scelta di dare importanza alla nuda materia del luogo stesso, dando voce ai “cunicoli che portano alle casematte avanzate e al blocco batterie parzialmente ricostruite, o il ben individuabile sistema dell’osservazione ottica che, attraverso i residui di una rete di comunicazione semplice ma efficace (a lampi di luce), consente di rendersi visivamente conto della stretta connessione del sistema dei forti degli Altipiani”.
Già muovere i primi passi in gallerie fredde e scarne che una sapiente illuminazione acida trasforma in proiezioni verso il buio dell’inquietudine fa precipitare il visitatore in uno stato emotivo capace di sottrarlo a ogni forma di superficialità, esaltandone la capacità di concentrazione e trasmettendogli la consapevolezza di vivere un’esperienza unica quanto doverosa, dove non è escluso l’affiorare del dolore in forma traslata ma comunque salvifica, una rivelazione di qualcosa su cui nel quotidiano si tende a chiudere gli occhi.
Le asettiche targhette poste all’inizio di ogni singola stanza responsabilizzano pedagogicamente l’osservatore, spinto ad accedere ai meandri della propria immaginazione e a puntualizzare lo sguardo su ogni minimo particolare…
… aiutato dal numero parco e ragionato di reperti che impediscono la distrazione e aiutano piuttosto il discernimento costruttivo, grazie all’estrema pulizia filologica della disposizione degli oggetti e al ricorso al potere dialogico della tranche de vie…
… mentre basta una suggestione dagherrotipica a squarciare il velo della commozione, attraverso foto che mostrano la cristallizzazione dei protagonisti di allora nel loro ancora essere carne e ossa, ansia e speranza, o Fear and desire (Paura e desiderio) per dirla con il Kubrick del suo primo film di guerra del ’53…
… anche se qui armi e filo spinato non sono elementi scenografici di un’opera della settima arte bensì squarci di letale realtà.
Intanto “altri luoghi suggeriscono la quotidianità della vita della guarnigione del forte, come quel che resta della cucina”…
… “o una delle tante camerate, sinteticamente ambientata, con lettucci di ferro e strutture di supporto, proprio nella stanza colpita dalle artiglierie italiane nel 1916 e malamente rattoppata dai soldati del forte con pietre e cemento”.
L’esposizione punta alla più completa soddisfazione cognitiva del visitatore e così non esita a rivolgersi ai più moderni e sofisticati dispositivi dello storytelling museale, utilizzando con oculata raffinatezza e senza vacuo esibizionismo la tecnologia più avanzata nei suoi Progetti Multimediali.
Come quello intitolato The Rude Awakening, un “viaggio multimediale sulle orme della vita quotidiana dei soldati in prima linea” frutto dell’unico progetto con sede in Italia cofinanziato dal programma Creative Europe dell’Unione Europea, il cui obiettivo è “promuovere approcci intersettoriali innovativi per agevolare l’accesso e la promozione di musei e siti storici su temi di guerra e pace”.
Infatti i suoi contenuti digitali e audiovisivi sono “basati sulle storie dei soldati della Prima Guerra Mondiale”, tradotti in “una nuova prospettiva educativa ed emotiva su guerra e pace, tramite la quale i visitatori impareranno in modo attivo mettendosi nei panni di un soldato lungo tutta la visita al museo, potendo così meglio comprendere i ricordi di guerra e la vita dei soldati grazie alla tecnologia”.
Il progetto La penna e la baionetta invece si trasferisce virtualmente sui campi di battaglia per farne sentire sull’epidermide reale dell’osservatore le condizioni “sempre drammatiche, ma anche i lunghi tempi morti, di effettiva noia”, ricordando che “la guerra non è solo azione, è anche e soprattutto una lunga e logorante attesa” durante la quale “i soldati vivono gran parte del loro tempo nell’incertezza, mentre aspettano esperienza drammatiche, di morte e distruzione”, attivando “una visione talvolta allucinata della calma, una ricerca febbrile della normalità dove normalità non c’è, uno sguardo fin troppo distaccato dall’orrore”.
Infine in Con i tuoi passi con i miei occhi ecco dei soldati accompagnarci “attraverso le stanze di Forte Belvedere raccontando la loro storia personale e descrivendo al tempo stesso le caratteristiche del sito, unendo aneddoti ed eventi storici locali e globali, aiutando il visitatore ad immedesimarsi negli stessi, ponendo interessanti parallelismi tra la guerra, il mondo intorno ad essa e il modo in cui il conflitto lo ha cambiato”.
Nella memoria si imprime la capacità mutuata dall’archeologia di elevare l’oggetto di uso comune allo status di bene culturale…
… e l’esplicita volontà di creare un’osmosi di discipline in grado di palesare la fluidità dell’argomento espositivo e la sua centralità nelle dinamiche umane, come quando lascia irrompere la Letteratura con brani di giganti come Hemingway, Montale e Musil che tolgono il fiato con quell’incedere di grazia glottologica nel cesellare argomentazioni inarrivabili senza l’assistenza del Genio.
Prima di andare via, è raccomandata una visita anche alla parte esterna del forte, non soltanto per comprendere in quale sfavillante contesto paesaggistico sia stato collocato questo mausoleo di passata aberrazione…
… ma anche per completare l’apprendimento dell’organizzazione di un presidio militare…
… e scorgere ulteriori dettagli ingegneristici, favoriti nell’intento da camminamenti e passerelle.
Sarebbe perfino ridondante sottolineare l’improvvisa amplificazione del valore di testimonianza del museo alla luce delle ostilità in atto tra Russia e Ucraina, una tragica fatalità che in realtà nulla aggiunge all’imperitura contemporaneità di questo allestimento che sa parlare a tutti col giusto tono di voce e un’articolazione dialettica in perfetta aderenza con il richiamo all’accessibilità rilanciato di recente perfino dall’Icom, mentre è impossibile non sottoscrivere l’anelito della Fondazione Forte Belvedere Gschwent nell’invitare alla visita “per non dimenticare le atrocità del passato e per costruire assieme un futuro di pace”, affinché il “tramandare questa triste storia del nostro passato” possa “sensibilizzare i visitatori verso una visione di Europa e di umanità capaci di affrontare le difficoltà senza più dover ricorrere alle armi”.
Info: https://www.fortebelvedere.org/il-museo-della-prima-guerra-mondiale/