Insolito Dante: il cibo nella Divina Commedia
“Grosse lamprede, o ver di gran salmoni, aporti, lucci, sanza far sentore. La buona anguilla non è già peggiore; alose o tinche o buoni storioni. Torte battute o tartere o fiadoni: queste sono cose da acquistar mi’amore, o s’è mi manda ancor grossi cavretti, o gran cappon…”. Così è scritto ne “Il Fiore”, poemetto in volgare che gran parte della critica attribuisce a un giovane Dante e già in quest’opera è ben visibile la presenza del cibo nei suoi componimenti . Le funzioni che esso assume tuttavia sono diversificate a seconda delle varie opere e, all’interno di esse, di varie tematiche. Nella Divina Commedia tuttavia esso ha prevalentemente un’accezione negativa divenendo strumento di realizzazione di una condizione peccaminosa che si traduce nel cedimento ai piaceri del cibo e quindi al tanto temuto peccato di gola che, se per i ceti bassi rimaneva un desiderio inesorabilmente mai placato, per i ricchi era compagno fedele della vita quotidiana. Le conseguenze a tutto ciò, come prevedibile, si traducono nelle pene inflitte alle anime dannate o espianti.
Nell’Inferno anche i diversi aspetti che caratterizzano il mondo gastronomico rientrano nelle pene; in un certo senso l’atto del cucinare diventa veicolo di somministrazione della pena ai dannati. Nella quinta bolgia i barattieri, speculatori fraudolenti di cose e cariche pubbliche a fini di lucro personale vengono tenuti sotto la pece bollente. “Non altrimenti i cuoci a lor vassalli” e continua “… fanno attuffare in mezzo la caldaia, la carne con li uncin, perché non galli …” (XXI, 55-57). Questa scena delinea bene l’immagine dell’inferno come una grande cucina dove i diavoli, mostruosi cuochi, ordinano ai loro sguatteri di immergere bene la carne dei dannati affinché non affiori e cuocia perfettamente. Scene simili sono descritte in altri punti: i violenti verso il prossimo nella persona e negli averi, per esempio, vengono definiti “bolliti” perché cotti nel sangue.
Questi aspetti ci permettono di identificare un luogo particolare, di tormento e condanna, dove gran parte dei supplizi derivano da lavori o utensili degli ambienti di cucina.
L’aspetto alimentare è presente anche nel Purgatorio: qui lo sbigottimento delle anime espianti, appena sbarcate sulla spiaggia, viene paragonato alla degustazione di una nuova pietanza “La turba che rimase li, selvaggia parea del loco, rimirando intorno come colui che nove cose assaggia… ” (II, 59-54).
Nel Paradiso Dante torna ad utilizzare il cibo come metafora; le schiere celesti vivono di “pan degli angeli” (II, 11) cioè della contemplazione mistica, insieme ai beati e ai santi che si nutrono simbolicamente dei misteri divini. In questo caso la ghiottoneria è lecita perché è una golosità di beatitudine.
Nel regno delle glorie celesti oltre al cibo l’atto del banchettare non è più fonte di peccato ma premio per una vita retta e pura; l’atto del nutrirsi viene elevato ad un gesto spirituale importantissimo, che i commensali compiono alla presenza di Dio. Il cibo quindi lascia il suo ruolo di nutrimento e si riveste di significati, riti e simboli. Tutto ciò è un esempio di come esso sia da sempre importante nella vita dell’individuo e in ogni aspetto delle varie società, cultura e letteratura comprese.