La mostra permanente di calchi della gipsoteca del Castello di Bari
Una piccola esposizione ricca di stimoli per la sua singolarità, in quanto compendio di sole riproduzioni che però divengono opere originali a loro volta, assumendo significati compositi e funzioni eclettiche: per questo merita un passaggio la Gipsoteca del Castello Svevo di Bari, incastonata tra i magnifici ambienti del maniero, ma così raccolta che va cercata e voluta.
Sull’apposita pagina a essa dedicata dal Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo (http://www.beniculturali.it/mibac/export/MiBAC/sito-MiBAC/Contenuti/MibacUnif/Eventi/visualizza_asset.html_1264906155.html) si apprende che è stata inaugurata nel 2011 per restituire “alla fruizione la straordinaria raccolta di calchi tratti dai più celebri monumenti pugliesi, realizzati per allestire il padiglione regionale dell’Esposizione Etnografica di Roma del 1911”. Questa comprendeva “un imponente numero di calchi in gesso esposti all’esterno ed all’interno della struttura, a testimoniare la coscienza diffusa fra gli intellettuali della regione di possedere un importante patrimonio architettonico ed artistico e di doverne divulgare la conoscenza”.
Una dichiarata motivazione legata al legittimo orgoglio identitario regionale, ma anche una missione pedagogica e divulgativa, “poiché “la mostra dei calchi doveva consentire ai visitatori la visione ravvicinata di particolari architettonici altrimenti difficilmente comprensibili”.
Le opere sono state eseguite dagli scultori Pasquale Duretti e Mario Sabatelli, “coadiuvati da artigiani formatori”: dipanano “i più notevoli motivi architettonici ed ornamentali dell’arte regionale, ispirandosi ai più importanti monumenti religiosi, civili e militari”, affidandosi al gusto estetico “con l’intento di mostrare l’evoluzione stilistica e tecnica dell’arte pugliese, anche se di quest’ultima offriva una immagine prevalentemente di Medioevo, con particolare riguardo al periodo romanico e all’età normanno sveva”.
L’attuale allestimento vuole essere proprio una rievocazione del concetto espositivo del 1911, “una sorta di antiquarium, dove però la collocazione dei reperti segue un ordinamento di tipo topografico, secondo la zona di provenienza, a suggerire una ricostruzione metaforica per modelli della produzione architettonica e artistica in ambito regionale”.
Il singolare progetto allestitivo alimenta il fascino dell’esposizione, la quale si presenta come un compendio di ipotesi, in cui ogni calco è una sineddoche, una sintesi parziale che chiede al visitatore di immaginare il resto, incendiando la fantasia del neofita o sfidando la competenza dell’esperto, mentre gli analisti troveranno nel particolare l’essenza dell’opera suggerita, il suo apogeo, il dettaglio che svela il tutto, in cui ciò che sarebbe nella realtà invisibile all’occhio qui si palesa invece in una ponderosa epifania dell’evidenza.
L’illuminazione gioca sovente sui chiaroscuri per mettere in evidenza i volumi della materia e la grazia del tocco scolpito, scivolando sulle superfici e gonfiandole di pregnanza.
Se il magico, l’esoterico, il mostruoso, troneggiano nella capacità di emozionare l’osservatore, con il loro eloquente teriomorfismo…
… è tuttavia la scansione di volti in successione a stagliarsi nella memoria, con gli sguardi che tracciano traiettorie nello spazio, per farsi inquietanti invece quando puntano l’iride di chi le sta ammirando.
Nel filmato che segue, la nostra visita video-guidata.