Le erbe selvatiche da cottura: quali sono e come si cucinano
Mangiare un’erba selvatica cotta o cruda è una scelta che dipende da più fattori. Alcune piante vanno sbollentate per eliminare una modesta tossicità, altre sono coriacee ed è meglio ammorbidirle, altre ancora hanno gusto vegetale intenso che la cottura va a ridurre.
D’altro canto, però, la cottura può togliere proprietà organolettiche, gusto e croccantezza alle parti più tenere. La scelta dipende quindi dal tipo di pianta, dalla parte che si preleva, dallo stadio vegetativo in cui si trova e dal periodo dell’anno in cui si fa raccolta.
Nella maggior parte dei casi, di conseguenza, si tratta a mio avviso di scelte abbastanza obbligate dal buon senso, così da rispettare e onorare il più possibile l’ingrediente che madre natura ci dà a disposizione.
Crespigno o Cicerbita (Sonchus Oleraceus, Sonchus Asper)
Infestante dei prati coltivati, il crespigno è forse l’erba selvatica più diffusamente raccolta dell’intera penisola. Il tipo Asper presenta bordi appuntiti, qualcosa come delle finte spine, ma non facciamoci intimorire: si masticano senza problemi. A livello di sapore, può passare da un dolce esplicito e sorprendente fino all’amaro, a seconda della stagione e di quale parte si sgranocchia. La rosetta basale colta in primavera finisce nelle padelle di mezza Italia, ma in realtà questa pianta può benissimo essere colta anche da adulta (può arrivare anche a un metro di altezza); le parti croccanti di cima sono deliziose sgranocchiate crude in pinzimonio come puntarelle, mentre le foglie non coriacee diventano deliziose ripassate in padella in qualunque stadio di sviluppo della pianta.
Buonenrico (Chenopodium Bonus-henricus)
Che dire del parùc che non sia stato già detto o scritto? Che di questo spinacio vi invito a raccoglierne poco e con giudizio, per evitare abusi e eccessi. La pianta paga dazio alla sua bontà, alla sua immediata riconoscibilità (la farinetta sotto le foglie è inconfondibile), al crescere esclusivamente nei pressi del suo predatore umano: caseggiati, stalle, alpeggi, prati montani fertili. E’ così bisognosa di escrezioni animali nel suolo che ne ho trovato esemplari giusto sotto la toilette del rifugio Brioschi, in cima al Grignone, a ben 2400 metri. Aspettate che la pianta sia alta almeno 20-30 cm, poco prima che sviluppi la pannocchietta apicale, prendete solo le foglie di cima e qualche foglia larga laterale, lasciando il fusto rigorosamente intatto. Dopo averlo soffocato in padella, vi consiglio la ricetta della mia nonna Angioletta: in un barattolo, alternatelo a strati a cipolla cruda, sale e pepe e mettetelo chiuso in frigorifero. Così preparato dura parecchi giorni: toglietene un paio di cucchiai, aggiungete nel piatto un filo d’olio extravergine e godetene.
Farinello (Chenopodium Album)
Il farinello ha sapore e utilizzo assolutamente analogo del suo cugino buonenrico, di cui probabilmente è pianta più antica: ne han trovato esemplari negli stomaci dei primi uomini, ce ne siamo nutriti da sempre! Eppure, dalle nostre parti partono masse di raccoglitori a maggio per decimare lo spinacio montano e si tralascia così lo spinacio di pianura che cresce rigoglioso ogni qualvolta si rivolti della terra, anche nelle aiuole o ai margini dei cantieri. Ha foglia più piccolina e appena più duretta, anch’essa appena farinosa sul lato inferiore, ma a differenza del suo esigente parente montano cresce praticamente ovunque, per periodi assai più lunghi, e cresce rigogliosa tanto che ne ho visti esemplari persino di un metro e mezzo o due. Cosa può fare di più per invitarci a raccoglierlo?
Costolina o Piattello (Hypochaeris Radicata)
Quando si parla di ingiustizie nella raccolta, il piattello chiede spiegazioni. Sembra una sorta di tarassaco dalle foglie grasse, del tutto appiattite per terra, come se ci si fosse seduto sopra un animale – il fiore giallo eretto al centro ci distoglie però dall’ipotesi e aiuta così il riconoscimento. Erba ricercatissima da vacche e maiali, presente in tutti i campi e prati, non si capisce come mai l’uomo non metta in atto lo stesso comportamento dei suddetti mammiferi. Personalmente commetto questo errore: la troppa abbondanza e disponibilità di alcune piante apre le porte a una specie di implicita squalifica, e così mi rivolgo a erbe più ricercate. Invece le foglie grassette del piattello sono assai succulente, appena spezzettate, passate veloci al vapore o aggiunte cotte o crude in qualsiasi preparazione.
Salvia dei prati (Salvia Pratensis)
Altra pianta diffusissima in valle, che al tempo della fioritura colora tutti i prati e gli alpeggi del suo bel viola intenso. Come le due precedenti, mi pare di fatto abbastanza trascurata dal punto di vista alimentare. A differenza della salvia officinale, non è aromatica o lo è solo in modo leggerissimo; così, quello che toglie dal punto di vista dell’aromaticità, la può rendere utilizzata come verdura comune. Le foglie sembrano coriacee al tatto, ma quelle giovani sono invece perfette per il misto da cuocere, da aggiungere a un minestrone, o anche impastellate e fritte. Io prediligo coglierne la cima tripartita poco prima della fioritura: i polloni così colti e passati al vapore sono saporitissimi, splendidi per un pinzimonio o una frittata, a cui aggiungere poi un tocco viola con qualche fiore.
Silene (Silene Vulgaris)
La raccolta della silene, detta anche scìopitt o stridoli, è assai praticata. Si può cogliere per ampi periodi, ma va prediletto il virgulto giovane (marzo-maggio), alto fino a 20 cm, perché in quello stadio il raccolto appena sbollentato è dolcissimo, delicato, davvero squisito; buona in ogni preparazione, deliziose nel risotto. Ci sono alcune varianti pelosette pure loro edibili (Silene Alba, Silene Dioica), ma non così deliziose e che si prestano a qualche confusione. Invece la vulgaris è inconfondibile, dalle piccole foglie lanceolate, lisce, croccantine da giovani; poi crescendo la pianta produce i tipici bubbolini, cioè capolini fiorali che si possono far scoppiettare sulla mano come quando si era bambini.
Ortica (Urtica Dioica)
L’ortica irrita la pelle, ma non va visto come un difetto. Ciò si rivela infatti un pregio, perché così viene evitata dagli animali e rimane a disposizione dei raccoglitori – o almeno di quelli provvisti di guanti. E’ infestante, si può coglierne le cimette tutto l’anno, ha un contenuto proteico smodato (il doppio della soia), favorisce la circolazione, aiuta i reni e si presta a preparazioni medicali. Il suo sapore potente e riconoscibile è adatto a tutte le preparazioni di cottura, gnocchi in primis (la sbollentatura dissolve velocemente la tossina). I più coraggiosi potranno prendere le cimette più giovani e fresche, tagliuzzarle o pestarle, aggiungerle quindi a salsa o burro ammorbidito e goderla spalmata su crostini senza grossi timori.
Lamium o Falsa Ortica (Lamium Purpureum, Lamium Album, Lamium Galeobdolon)
Il lamium è facile da riconoscere. E’ simile all’ortica, ma non irrita la pelle; somiglia alla melissa, ma non è peloso né aromatico; ha bei fiorellini commestibili di colore giallo, viola o bianco attaccati al fusto appena sopra le foglie. E’ di sapore buono e intenso, così è bene usarne in piccole quantità, da solo (a scopo degustativo) o aggiunto ad altre erbe (per non influenzare troppo il sapore complessivo). Recentemente mi sono trovato a rivalutarlo molto, perché spiccava per bontà all’interno di un misto di verdure. Provate a utilizzarlo come componente base di polpette vegetali, come sostituto della carne.
Caglio (Galium Aparine, Galium Mollugo)
Tutte piante del genere galium sono assai riconoscibili, per la disposizione a corolla delle foglie allungate lungo il fusto centrale. In passato veniva utilizzata come alternativa vegetale al fine di cagliare il latte; da qui il nome. Pianta diffusissima, ha gusto vegetale intenso; alcune cimette fresche possono arricchire le insalate miste, ma proprio per la sua intensità consiglio di sbollentare i polloni e usarli in modo analogo agli asparagi, in frittate o torte salate.
Panace (Heracleum Sphondilium)
Non confondete il panace o sedano dei prati col panace di Mantegazza (Heracleum Mantegazzianum), specie ornamentale “genialmente” importata in Europa a fine ‘800 le cui piante gigantesche han poi infestato valli e prati come specie aliena invasiva. Questa pianta va combattuta ed eradicata con attenzione, perché la linfa fotosensibilizza la pelle e provoca ustioni brutte e dolorose; aggiungo però che fortunatamente in Valtaleggio non ho ancora avuto modo di incrociare il Mantegazzianum. Il nostro panace è assai più modesto di dimensioni, ha foglia più piccola e assai meno frastagliata, e non duole a nessuno. Tutt’altro, questa pianta colta al momento opportuno si rivela uno dei regali migliori che potete farvi come raccoglitori: il suo tempo è quando inizia a spuntare il broccolo, cioè il giovane fiore, che fuoriesce piegato all’interno della cima per ergersi progressivamente. Allora si coglie il pollone e lo si passa al vapore, lo si assapora e ci si lecca i baffi. La pianta ha gusto di sedano, ma assai più intenso e con aromi di carota; anche i gambi delle foglie giovani sono prelibati, crudi o cotti.
Alliaria (Alliaria Petiolata)
Pianta diffusa in tutta la valle, anche l’alliaria in primavera va seguita con la coda dell’occhio e colta solo al momento giusto. E’ quando ad aprile-maggio il fusto inizia a innalzarsi ancora morbido, diciamo da 20 a 50 cm. Allora si coglie la cima (circa 20 cm) coi primi fiori e la si sgranocchia, cruda in pinzimonio o passata al vapore. Anche le foglie possono essere consumate cotte senza problemi, con l’avvertenza che la pianta unisce un aroma di aglio a un gusto amaro accentuato, che diventa predominante con l’avanzare della stagione.
Lattuga dei boschi (Mycelis Muralis)
Concludo con una prelibatezza riscoperta di recente nelle mie peregrinazioni, di cui è costellata la strada che dal Bonetto sale ad Artavaggio (ma anche il Canto Alto, ad esempio, ne è pieno). Si colgono le cime quando è alta dai 20 ai 40 cm, e in quel caso è opportuno mangiarla cruda e croccante; altrimenti si può saltare ottimamente in padella, a partire dalla rosetta basale, dove risulta simile alla gramigna. Il gusto è di lattuga fresca, ma è più saporita e ha una nota amara in più; se colta nel periodo giusto, proprio questo equilibrio tra dolce e amaro la rende vittoriosa nel confronto al palato con la sua parente “addomesticata”.
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