Museo Archeologico Nazionale di Venosa, genius loci dalla Natura all’Uomo
Sarà la nuda pietra dell’ambiente espositivo, sarà la collocazione semi-ipogea dei reperti, sarà l’imponenza del maniero che incombe sul tuo capo, sarà soltanto suggestione, ma quando ti introduci nel Museo Archeologico Nazionale di Venosa senti vibrare le vene di un’emozione tellurica, come attraversato dalle scosse del Tempo che forgia la Storia e l’Uomo che la abita.
Sarà quel cartello che ti accoglie associando subito Venosa a un bacino vulcanico, tra immagini di imponenti sbuffi eruttivi e landscape forgiati da ancestrali esuberanze magmatiche…
… mentre ghermisce l’epidermide quell’abbrivio dello storytelling museale che postula “circa 700.000 anni fa l’uomo inizia a frequentare il bacino di Venosa”, facendo risalire a 100.00 anni fa il momento in cui “l’uomo entra nel cratere del Vulture”, ovvero il vulcano che ha letteralmente creato tale territorio.
Numeri e cifre che dal mero dato apodittico si spostano verso l’astrazione umanistica, conferendoti un senso di sacro rispetto per quest’area, tra le più nobili del globo terrestre.
Siamo nelle viscere del Castello aragonese fatto edificare da Pirro del Balzo tra il 1460 e il 1470 “su un sito precedentemente occupato dalla prima Cattedrale venosina”, circostanza che deve avere contribuito alla sacralità che si avverte tra queste mura.
Ci si introduce nel budello viario interno del castello ed è subito tempo di passare in rassegna scorci e ricostruzioni dei siti preistorici dell’area del Vulture, tra squarci di rocce e materiali effusivi che parlano del corredo geologico…
… e resti animali che cominciano a dare vita alle suggestioni della prima vita che fu…
… mentre i resti litici narrano le primigenie abilità dell’Uomo nel loro primitivo sbocciare.
Imprescindibile il capitolo sul giacimento paleolitico del vicino sito di Notarchirico (http://www.storienogastronomiche.it/parco-paleontologico-notarchirico-sito-lucano-rilievo-internazionale/), con le teche che integrano perfettamente l’auspicabile visita al Parco omonimo, fondamentale per risalire gnoseologicamente ai prodromi del genius loci autoctono.
E’ il monumentale prologo di questo Museo scorrevole come un romanzo storico ma solido come un trattato scientifico, prima che l’esposizione si concentri sulle vicende della civiltà che hanno dato lustro e fama a Venosa.
Sulla pagina web ufficiale del Polo Museale Regionale della Basilicata dedicata al museo si spiega infatti che la struttura espositiva è dedicata “alla colonia romana di Venusia, patria del poeta latino Orazio, fondata nell’anno 291 a.C.”, la quale “espone, nei camminamenti sotterranei che collegano i bastioni del Castello Aragonese, reperti che illustrano la storia politica e culturale dell’area”.
Il criterio espositivo è di impianto diacronico, con una ripartizione in cinque sezioni che fungono da scansione spazio-temporale.
Come seguendo grani di un ideale rosario cronologico, la liturgia della visita, dopo essere partita dall’era preistorica, si dipana lungo la fase della romanizzazione…
… quindi il “periodo compreso tra la fine dell’Età repubblicana e l’Età augustea e fino al periodo tardo antico ed alto medioevale”.
Si legge perfettamente “la storia politica e culturale romana, con la nascita e la vita di Venusia fino alla fine dell’impero”, attraverso la testimonianza data “dalla presenza di monete, elementi di decorazione architettonica e ceramiche”.
Irretisce la raccolta epigrafica che copre un arco di tempo molto ampio, quasi interessando tutto il cuore dell’evoluzione sociale della veccia Venosa, contemplando tanto l’aspetto funerario che quello della vita pubblica…
… colpendo al cuore con frasi tra l’elevazione filosofica di massime socio-politiche e la tenera ingenuità della pura espressione dei sentimenti famigliari.
Non manca il baluginare della grazia estetica nelle tracce figurative di antichi mosaici e pavimentazioni decorate…
Intanto il memento mori è sempre immancabilmente dietro l’angolo…
… e le riflessioni corrono nei meandri della coscienza del visitatore, favorite da un’illuminazione di rara discrezione, capace di mettere in luce il particolare paradigmatico, carezzando con la penombra le sfumature importanti, sfumando invece il contorno privo di significante, creando una teoria espressionista che assolutizza il vuoto e il pieno, anche in chi osserva.
Abbiamo acceso la telecamera lungo il nostro percorso di visita nel museo, per lasciarne traccia nel video che segue.