Museo del brigantaggio di Cellere (VT), emozionante profonda narrazione del fenomeno in Maremma
Hanno tentato di seppellire l’argomento in tutti i modi in una delle più bieche operazioni di cancel culture operate in Italia, ma se in questo caso la damnatio memoriae non ha funzionato è grazie anche a luoghi di cultura che hanno mantenuto vive storie scomode per offrirle alla conoscenza della collettività, come avviene con lo straordinario Museo del brigantaggio di Cellere in provincia di Viterbo, il quale con precisione e umanità illustra un’epopea impossibile da liquidare come una lotta ottocentesca tra buoni e cattivi, andando oltre le divisioni manichee tra criminali o eroi per farci comprendere invece come la storia d’Italia sia stata influenzata da questa ribellione dal basso ricca di sfaccettature da ponderare attentamente.
Fondato nel 2007, il Museo si definisce “polo tematico essenziale del Sistema museale del lago di Bolsena nella documentazione, ricostruzione, interpretazione e mediazione di un fenomeno sociale e culturale assai controverso che ha contribuito, e contribuisce tutt’ora, a plasmare l’immaginario locale”.
Il tema fondante è dunque “il brigantaggio nell’alto Lazio”, ma “il Museo invita a riflettere in merito a quanto la nostra identità di italiani abbia avuto necessità di definirsi in rapporto e contrapposizione ad una alterità rappresentata dalla figura del brigante”.
Tra le peculiarità dell’allestimento, la presenza di un Virgilio involontario, un personaggio eletto quasi a guida tematica, Domenico Tiburzi, detto il Re del Lamone in quanto ha incarnato “il più celebre dei briganti maremmani, nato nella frazione di Pianiano nel 1831 e morto alle Forane di Capalbio nel 1896”.
Impossibile relegare questa enorme figura del tempo nella formula del Robin Hood maremmano (che pure per certi versi è stato) o del terrorista ante-litteram: approfondirne le origini e conseguenti tribolazioni stimola analisi critica insieme a pietas umana, creando interrogativi senza mai imporre risposte.
La struttura si fa ammirare fin dall’esterno per il pregio architettonico altamente evocativo, avendo sede nei locali dell’ex mattatoio comunale risalenti ai primi del Novecento.
Fin dai primi passi al suo interno, il visitatore viene accolto dal museo con la dichiarata volontà di raccontarsi e raccontare a sua volta le vicende che raggruppa al suo interno, intessendo un reale dialogo con l’osservatore fitto di informazioni e suggestioni, un flusso cognitivamente molto stimolante che sublima la funzione didattica per divenire autentica e appassionata missione pedagogica tesa all’accrescimento del pensiero critico e della consapevolezza sociale.
Nel è dimostrazione la scrivania posta all’ingresso, piena di libri, dépliant, brochure e materiale informativo d’ogni genere, dimostrazione dell’enorme studio alla base dell’esposizione, condotto con difficoltà immaginabili tra testimonianze orali, antichi volumi, ritagli d’emeroteca, svolgendo indagini approfondite in ogni luogo del territorio che potesse contenere reperti degli eventi narrati, un lavoro di ricerca rigoroso quanto monumentale che spiega la solidità scientifica del progetto, dando spessore storico a un ambito della memoria solitamente affidato alla leggenda o al mito.
Siamo nello stesso spazio “che restituisce le fonti documentarie sul brigantaggio maremmano che risalgono agli anni stessi del fenomeno (all’ingrosso: la seconda metà del XIX secolo)”, nel quale si evidenziano i due “elementi fondamentali che connotano questa sezione sul piano scenografico: il bosco e il treno, simbolo, il primo, di una idea di tradizione e, il secondo, di una idea di modernità”.
Così “in memoria dell’ammazzatòro” ecco il piano terra “pensato come un percorso polifonico, fatto di oggetti esposti, testi da leggere, cassetti da aprire, audio da ascoltare, video: risorse conoscitive ed emozionali che il visitatore è chiamato ad attivare e fruire sulla base delle proprie curiosità”, con la guida dello storytelling affidata al reportage realizzato dal giornalista Adolfo Rossi quando “seguì le vicende processuali della Banda del Lamone, di cui era a capo Tiburzi e che nel 1893 pubblicò un volume intitolato Nel Regno di Tiburzi”.
A colpire è la massiccia e insolita presenza della parola scritta che invade ogni angolo del museo, non soltanto ovviamente sui pannelli esplicativi, dove comunque trionfa la serietà dell’inchiesta storica, con testi che spesso sono estratti da volumi o articoli di altissimo valore riportati scrupolosamente con la doverosa citazione delle fonti…
… cui si aggiungono gli espositori da leggere che oltre a mostrare qualche ritrovamento si spingono a porre tasselli su tasselli di un mosaico storico di rilevante complessità, tale da fare comprendere tutte le componenti del fenomeno, rifuggendo la semplificazione romanzata per attingere invece all’affresco dei riscontri, inserendo per esempio nel contesto del brigantaggio il coevo dramma della malaria, indissolubilmente legati nel contesto della Maremma povera e martoriata del tempo…
… per farsi poi rapire da fogli appesi a suggestivi rami scarni dai quali penzolano scritti da cogliere a naso in su…
… una successione di perle epistemologiche che sovente sorprendono per il loro eclettismo intellettuale, come nel caso dello spazio dato al canto popolare Maremma amara di cui si riportano il testo come le note musicali…
… senza disdegnare tuttavia il linguaggio delle immagini, sempre in chiave emotiva, ricorrendo magari alle gigantografie…
… e al misurato impiego funzionale dell’audiovisivo…
… fino all’arte, con sculture apodittiche che hanno il pregio di essere inclusive come richiesto dai dettami dell’ICOM, rendendosi comprensibili a tutti.
Se questa prima area risulta razionale pur nella sua originale disposizione degli elementi, nel piano superiore invece si scatena una visione più creativa del racconto, riportando “il modo in cui, a più di cento anni dalla sua morte, Tiburzi venga ancora ricordato e raccontato nei luoghi che lo videro agire e in quelli in cui si diffuse il suo mito: più di 70 clip video, estratte da più lunghe interviste, restituiscono – tramite postazioni multimediali – gesta, amori, avventure, scherzi, efferati omicidi compiuti da Tiburzi e dagli altri della sua Banda”, frutto di una lunga ricerca sul campo in diverse località della provincia di Viterbo e Grosseto…
… tutto proposto “tramite diverse installazioni etnografiche audiovisive, storie che hanno come protagonista il brigante Tiburzi: tre di queste, particolarmente rappresentative, sono state trasformate in micro performance narrative fruibili in tre stanze a tema”, attingendo alla tecnica della ricostruzione scenica essenziale ma dotata di appeal spettacolare…
… con l’inserimento di elementi simbolici e iconografici…
… e perfino di un’accuratissima ricostruzione cinematografica alla maniera del tempo del muto, per suggerire l’idea di un Tiburzi capace di sopravvivere alla sua stessa morte, consegnandosi a una vita eterna grazie al ricordo perenne.
Il tragitto si conclude nella Taverna dei briganti, folgorante per l’intelligenza espressa, poiché raccoglie esempi dell’utilizzo del brigantaggio a fini commerciali e turistici, illuminante nel fare comprendere l’efficacia dell’heritage nell’odierno sistema economico che non disdegna l’uso anche di drammi, ma al tempo stesso segnando una sorta di riabilitazione sociale degli interpreti di quel fenomeno, ormai entrati nell’immaginario locale.
Al termine dell’esperienza appare perfettamente ottenuto l’obiettivo di sottoporre il brigantaggio al “vaglio dell’indagine antropologica”, sondando “molteplici immaginari stratificati (il mondo borghese colto, le culture locali) offrendone lettura e cornici interpretative”, con il brigante Tiburzi che “viene così a configurarsi come un personaggio, notevole ma non del tutto positivo, costruito alla grande dall’immaginazione locale: sarebbe grave sottovalutare quanto questo ricco ed ancora oggi effervescente immaginario dialoghi con e si alimenti del sentimento popolare, costituisca cioè una risorsa sempre attiva per rispondere come atto di rivalsa alle ingiustizie e ai non-sense della storia; la memoria sociale in questo modo si configura anche come un esito del potere dei deboli”.
Grazie a tutti questi elementi il Museo del brigantaggio di Cellere si attesta come uno dei più preziosi beni culturali del Paese, indispensabile per chi ambisca alla formazione di un pensiero critico e voglia essere un cittadino consapevole.
Da citare pure l’intenso impegno del direttore Marco D’Aureli, anima della struttura, generoso nell’offrirsi con devozione alle visite del pubblico così come nell’ideare imperdibili iniziative collaterali che coinvolgono il territorio, il quale offre una sterminata sapienza frutto di lunghi studi e attività accademiche insieme a un’empatia che rende l’esperienza di visita memorabile.
Info: https://www.museobrigantaggiocellere.org/