Museo del Brigantaggio a Rionero in Basilicata, è tutta un’altra storia
Uno dei luoghi di cultura più importanti d’Italia, imprescindibile per la costruzione di una coscienza civile del Paese: il Museo del Brigantaggio di Largo Giuseppe Mazzini a Rionero in Vulture, in provincia di Potenza, in Basilicata, con il suo fare luce sul periodo più doloroso e controverso della nascita della nostra nazione, rende un servizio insostituibile e necessario a tutti gli italiani.
Perché ci fa comprendere quanta retorica ci sia nelle celebrazioni risorgimentali, quante ombre gravino sugli eroi messi a fondamento dello Stato, quindi quanta Storia ci sia da (ri)scrivere, o quanto meno da correggere, contribuendo a un corretto inquadramento della cosiddetta questione meridionale.
Il tutto basandosi sul racconto di quel manipolo di uomini e donne che rifiutarono l’assetto della nascente Italia seguito alla sua sanguinosa unificazione, creando una sfuggente comunità resistente, un arrangiato esercito popolare pronto a resistere con ogni mezzo all’organizzato esercito regolare, creando una tumultuosa epopea con tutti i connotati del più trascinante racconto carico di epos.
Per pochi ma intensi anni, i briganti del dopo unità d’Italia misero sotto scacco quel Potere che si era presentato come amico ma che rivelò molti punti oscuri, resistendo a soldati ben più attrezzati grazie a tecniche di guerriglia che prevedevano agguati alle truppe avversarie, compiuti in ostici ambienti di natura selvaggia, con immediata ritirata una volta che avevano colpito, lo stesso sistema che un secolo dopo consentirà ai ribelli vietnamiti di resistere agli invasori statunitensi.
Il ritratto che il museo rende dei briganti lucani, non li rende né santi né criminali tout court, ma certamente eroici nel resistere a qualcosa di più grande di loro che li avrebbe comunque schiacciati: sì, rubarono, uccisero, commisero nefandezze, ma se crearono tanto consenso nelle classi più umili un motivo deve esserci stato.
Il museo illustra questa complessità, attraverso il racconto delle vite dei briganti, dalle violenze commesse a quelle subite, passando però per le azioni solidali, riportando fedelmente le istanze materiali ma anche ideali che li muovevano, tutt’altro che cruente e infondate.
Lo stimolo intellettuale che se ne ricava è impagabile e la visita al museo è destinata a imprimersi indelebilmente nella memoria del visitatore.
Già la sede del museo irretisce per i suo trascorsi.
L’immobile, nato come edificio ecclesiastico nella metà del XV secolo, quale Grancia del Convento di Santa Maria degli Angeli di Atella, quindi con la funzione di deposito e granaio, è stato poi utilizzato quale caserma dall’esercito napoleonico e infine convertito a carcere circondariale borbonico nel 1832.
In un sito accreditato alla Pro Loco Rionero in Vulture (http://prolocorionero.altervista.org/museo-del-brigantaggio.html), ente cui è affidata la gestione del Museo del Brigantaggio, a proposito della struttura che lo accoglie si fa notare come unisca “in un unico edificio una serie di simboli sentiti come parte fondamentale della propria storia dagli abitanti di Rionero: l’attività dei francescani, l’epopea del Brigantaggio e in particolare quella di Carmine Crocco, le fasi e i personaggi salienti dell’intenso periodo storico post unitario”.
Tutto parte dalla fine del ’700, caratterizzata “da numerosi atti di brigantaggio che turbano la sicurezza delle campagne del Vulture”, grazie alle “imprese del famigerato Angiolillo (Angelo del Duca) e dei fratelli Bufaletto (Pasquale e Vito Giordano) e Maccapane (Tommaso Grosso)”, ma è “a seguito dell’unificazione italiana che si sviluppò quel brigantaggio a risonanza nazionale con le gesta di Carmine Crocco e la sua banda di briganti”.
Del museo viene sottolineata, efficacemente, la dimensione virtuale, grazie all’utilizzo di nuove tecnologie come touch screen, video, audio-guide, ma in realtà ancor di più va sottolineata la presenza di una piccola ma ragionata biblioteca di volumi sul brigantaggio, come simbolo tangibile delle fondamenta scientifiche su cui si basa l’esposizione.
Un rigore storico suffragato da un archivio sul brigantaggio di grandissimo valore, in grado di offrire a studiosi ma anche a semplici curiosi una corposa serie di documenti sul fenomeno e sui suoi protagonisti.
Una mole di materiali che può richiedere anche dei giorni per un’indagine esaustiva.
Colpisce emotivamente che le sale espositive siano state un tempo delle celle, alcune delle quali destinate ai detenuti ammalati, ai colpevoli di piccoli reati e alle carcerate di sesso femminile.
A proposito di donne, qui si scoprono le straordinarie figure femminili protagoniste del brigantaggio, l’aspetto più sorprendente del fenomeno. Figure forti e complesse, ricche di autentica carica trasgressiva, in un mondo che ancora relegava le donne a succubi del maschio, impietrite nel ruolo dimesso di angelo del focolare.
Invece lo spazio importante che il museo dedica alle brigantesse le tratteggia come donne controcorrente e realmente rivoluzionarie per la società del tempo, le quali hanno raggiunto una sorta di parità ante litteram con gli uomini, assimilandosi a essi anche sul piano delle inevitabili derive cruente della lotta intrapresa.
Nelle foto che le raffigurano, i loro volti sono ruvidi e affatto imbellettati, lo sguardo è profondo e minacciosamente puntato dritto verso l’obiettivo quasi in segno di sfida: imbracciano un fucile, ma non rinunciano alla femminilità vezzosa di una gonna, cristallizzandosi in immagini di una rara potenza espressiva.
L’utilizzo di scarni scheletri di legno come appoggi espositivi esalta il crudo rimando alla realtà mostrata, ponendo l’accento tutto sull’immagine ritratta e la sua potenza evocativa endogena.
Lo storytelling espositivo punta molto infatti sull’aspetto iconico, con un largo utilizzo delle immagini fotografiche, le quali colpiscono per la puntualità con cui ci restituiscono il dato fisiognomico dei briganti, i cui volti, solcati dalla fatica di una vita alla macchia, esprimono tanto la sofferenza di quella vita quanto la fierezza con cui l’affrontavano, cui va aggiunto il fascino artistico degli scatti d’epoca ormai secolari, con il loro magnifico bianco e nero denso di contrasti, le pose plastiche dei soggetti, le rudimentali soluzioni (foto)grafiche che inscrivevano io soggetto magari dentro un oblò, mentre l’abbigliamento sembra ispirato da un genio dei costumi cinematografici, quando invece era il semplice buon gusto quotidiano dell’epoca che veniva espresso anche in condizioni tutt’altro che agevoli.
Il percorso di visita è scandito da frasi lapidarie impresse su targhe, massime quali “il brigante è come la serpe, se non lo stuzzichi non ti morde”, o sintesi illuminanti come “di banditi, o briganti, ce ne sono di tutte le gradazioni, dalla belva sanguinaria, tigre o iena, fin quasi all’eroe o al martire”.
La presenza del vessillo dei Borboni è una rimembranza storica, ma anche eco di un rimpianto diffuso ancora molto vivo in Basilicata.
La parte della visita dedicata al solo edificio non manca di impressionare a sua volta, soprattutto quando, all’interno di una ex cella, ti imbatti nelle scritte e nei (di)segni dei detenuti di quel tempo, i quali vergavano ansie, rabbia, rimpianti e speranze sulla nuda pietra o la sporadica calce, facendolo nel buio cui erano costretti, creando così strazianti graffi di umanità dolente.
Proprio in una cella, con un riuscito coup de théâtre, dall’oscurità si materializza un brigante, attraverso una video proiezione che mostra un ottimo attore nei panni sdruciti di un esponente del brigantaggio che con voce stentorea declama la sua drammatica condizione.
Potete vederne un breve estratto nel video qui sotto.
Le stanze delle esposizioni, ieratiche nella loro semplicità, sono tuttavia arricchite da alcune installazioni scenografiche, quasi delle sculture in materiale leggero il cui colore dorato conferisce un tocco kitsch che, a posteriori, appare una discrasia rispetto alla sobrietà della narrazione…
… e lo stesso vale anche per i cartonati che non aggiungono nulla alla già tangibile percezione dei briganti che si respira nel museo.
Più congrui invece i reperti in mostra dell’epopea dei briganti, come armi e abiti…
… ma anche ciò che resta di qualche razzia.
Su tutta la narrazione, giganteggia la figura di Carmine Crocco, il più celebre e celebrato dei briganti lucani, nativo di Rionero, il quale ancora oggi emana un fascino irresistibile su comunità autoctona e viaggiatori di passaggio: siamo arrivati a riscontrare perfino delle forme di venerazione neanche tanto sporadiche, proprio nel territorio del Vulture.
Tra i tanti aspetti estremamente positivi del Museo, quello più apprezzabile è la misura nell’affrontare una materia tanto incandescente, quanto la lava che millenni addietro ha forgiato l’ambiente del Vulture che ne è stato teatro.
Sarebbe stato facile cedere alla tentazione di adottare toni assertivi e di schierarsi apoditticamente nell’eterna lotta tra il bene e il male, tra l’ordine costituito e la rivoluzione libertaria, tra l’oppressione imperialista e l’afflato indipendentista, pendendo ovviamente per i briganti qui protagonisti. Invece, dalla visita nel museo, si esce con più domande che risposte, con più ipotesi che tesi consolidate. Un lascito salutare che consente al visitatore di adottare una personale visione del fenomeno, basata non più sugli echi leggendari che giungono a chi è distante dall’epicentro del brigantaggio lucano, bensì sul rigore di atti storici tangibili.
In questo modo viene stimolata l’indipendenza del pensiero, dono ben raro in questi tempi dominati da tentativi di imporre il pensiero unico in ogni ambito.
Nel video che segue, vi sintetizziamo l’esperienza visiva della visita al museo.
A condurci nei meandri di questo articolato gioiello museale, è stato il preparatissimo Cristian Strazza, tanto puntuale nella descrizione dell’esposizione, quanto arguto nell’analisi del periodo narrato: lo abbiamo intervistato in questo video conclusivo.
Info pagina Facebook: Pro Loco Rionero