Il Museo delle Torture nel castello di Peschici (FG), memoria etica
Svetta nel centro storico di Peschici per farsi monumento di una comunità e al tempo stesso monito culturale, il Castello Medievale del X secolo che ospita il Museo delle Torture.
Si staglia sul recinto baronale, sorgendo “sopra a una alta roccia a strapiombo sul mare”, come viene notato su un’apposita pagina del sito del Ministero per i beni e le attività culturali in cui si racconta che “venne edificato dai normanni tra il X e l’XI secolo, allo scopo di difendere queste terre dagli attacchi e dalle scorribande dei Saraceni e dei pirati”, ricordando che vi “risedettero in origine i monaci dell’abazie delle Tremiti”, vivendo un periodo d’oro durante il regno di Federico II.
Il museo accoglie con una sentenza dello storico statunitense Alfred William McCoy secondo la quale “la tortura tocca i più segreti e sconosciuti recessi della coscienza umana dove creazione e distruzione convivono, dove l’infinita capacità umana di bontà e l’infinita capacità umana di crudeltà coesistono. E quest’ultima ha una perversa attrattiva che talora diventa incontrollabile”.
E’ il preludio alla visita alle segrete che ospitano la mostra permanente degli strumenti di tortura “con esposizione di oltre 60 pezzi dal Medioevo al Rinascimento”.
All’inizio del percorso, secondo logica, si incontra una delle forme più rudimentali e arcaiche di pene corporali, la decapitazione, operata da un boia e “molto ricorrente nella conclusione dei processi per stregoneria”, superata per frequenza soltanto dal rogo.
Era la condanna per chi veniva ritenuta una strega ma era “considerata colpevole di reati minori” per i quali si considerasse sufficiente la decollazione.
Nella sua essenzialità, la mannaia poggiata su un ceppo è vividamente apodittica, riuscendo a raccontare un’era con l’unione di due soli oggetti complementari, in una sintesi che non richiede ulteriori spiegazioni.
Le Sedie delle streghe introducono l’elemento del chiodo, molto diffuso nei sistemi di tortura, in un misto di evocazione cristologica (involontaria?) e concreto simbolo di violazione dei confini corporali, un’introduzione nella vita pulsante tra le carni vive che, oggettivamente, non può non fare pensare al sadismo neanche tanto sotteso di chi assisteva a tali pratiche.
Per quanto l’impianto dell’allestimento sia evidentemente orientato sull’impatto emotivo, inevitabile davanti alla potenza di certe immagini che si presentano agli occhi dei visitatori, con reperti sapientemente distanziati affinché di ciascuno si colga la specificità…
… è però quando il museo allega all’oggetto immagini e spiegazioni grafiche che cresce il suo valore divulgativo, assumendo un utile compito di pedagogia antropologica.
Per alcuni reperti il curatore ha compiuto la scelta della conservazione in teche, probabilmente per preservarli dall’usura che potrebbe comportare l’esposizione agli agenti atmosferici e alla curiosità manuale dei visitatori, come nel caso dei metallici Spaccaginocchio e Collare spinato.
Si apprezza un corredo iconografico che appare ancora una volta narrativo e non decorativo, con raffigurazioni di una tale chiarezza espressiva da rappresentare ciascuno una sineddoche visiva di una metodologia.
A tratti prevale la tentazione estetizzante, quando la geometria delle forme pare avere guidato la mano dell’allestitore verso la seduzione dello sguardo, alleggerendo per qualche passaggio l’impostazione ideologica e concedendosi un vezzo, senza tuttavia intaccare la coerenza tematica del percorso.
Il ritorno alla missione educativa è dietro l’angolo, quando si traduce in una lezione semantica, permettendo di comprendere attraverso una composizione il concreto significato di un’espressione nota (ma in disuso) come “mettere alla berlina”: quest’ultima, simile alla gogna, è qui mostrata nella sua funzione tesa a esporre al pubblico ludibrio il condannato, come evidenziato anche da un’immagine a essa accostata.
In tutto questo è bene però non lasciare che la riflessione distragga troppo dall’ammirazione per gli ambienti, perché l’orrore qui è pur sempre ospitato dalla Bellezza, quella architettonica di magnifiche strutture litiche in cui la pietra nuda, splendidamente tenuta, disegna volute frastagliate, composizioni ingegneristiche che si reggono da sé, in un gioco di spinte dinamiche e scarichi del peso che muta in armonia secolare.
Gli ambienti sono parte integrante dello storytelling, perché spingendo l’osservatore tra i suoi meandri e incanalandone il cammino tra deviazioni labirintiche e passaggi in cunicoli, alimenta considerevolmente la temperatura emotiva e con essa l’impatto dell’esperienza.
La Sedia inquisitoria posta in prossimità del termine della sezione sulle torture, nella sua alcova che la rende messaggio assolutizzato, è l’ultimo tocco di un affresco condensato nello spazio di un dispositivo raccolto che con quella sua fitta serie ininterrotta di punte palesa un destino senza scampo.
Un ultimo tratto espositivo, attraverso oggetti d’uso quotidiano tipici della parte umile (e quindi più nobile) della società, riporta la scansione dell’orrore nel contesto di una vita che scorreva al di là della gigantesca contrapposizione morale di delitto e castigo, dove le sentenza al massimo le emetteva la Natura nel suo accordare prosperità o miseria secondo il suo imperscrutabile estro del momento.
Chi dovesse intanto essersi sentito mancare il respiro per la tempesta di suggestioni dispensata dal museo, può ristorare gli occhi e l’animo con gli scorci di mare tendenti all’infinito che baluginano dalle aperture del castello, per quanto a volte le sbarre ricordino sempre la costrizione della condanna.
Dopo avere apprezzato la qualità dell’accoglienza, si consiglia lo scambio di qualche parola con chi sta in biglietteria, per comprendere lo sforzo immane e ammirevole del soggetto privato che ha deciso di salvare il castello dal deperimento, affrontando un costosissimo restauro che appare come un dono alla comunità di Peschici, la quale così oggi vede salvaguardato e valorizzato un pezzo fondamentale dell’identità cittadina, senza dimenticare il contributo dato in questo modo anche alla collettività e alla Conoscenza.
Non si può lasciare il castello prima di averne visitato il delizioso giardino che lo cinge, tra macchia mediterranea, vialetti di rara grazia, angoli di letizia in cui stemperare le plumbee evidenze dell’esposizione museale…
… con scorci di stupore che si fisseranno tra i ricordi indelebili di questo miracoloso angolo di Gargano.
In questo stato di grazia, la validità di quanto vissuto ci stimola un’ultima riflessione, resa necessaria dalla singolarità del museo, il quale appartiene alla rara categoria delle esposizioni di fortissimo impianto etico. E’ proprio la presenza caratterizzante dell’Etica come valore espositivo a incuriosire e fare interrogare lo studioso che solitamente invece richiede a un museo distacco scientifico, quindi una distanza analitica dall’oggetto esposto che non presupporrebbe coinvolgimento epidermico e giudizio morale.
Il Museo delle Torture è apertamente coinvolto, esprimendo un giudizio negativo su quanto narra. Si comprende ovviamente la ragione di ciò, perché un simile argomento non può e non deve lasciare insensibili.
Ciò porta a qualche effetto problematico: ogni volta che nelle didascalie del Museo delle Torture abbiamo letto accorate accuse di uso di metodi criminali contro le istituzioni governative che hanno utilizzato tali sistemi, avremmo sentito il bisogno di trovare anche qualche parola sui crimini commessi da quei condannati torturati e sul dolore da essi a loro volta arrecato a cittadini magari inermi e indifesi, giusto per inscrivere la violenza in un contesto diffuso, razionalizzandone le cause e analizzandola da ogni punto di vista, senza che ciò ne intacchi la esecrabilità.
Sul piano metodologico, certe sottolineature dell’orrore sono apparse pleonastiche: se la tortura è un tale evidente abominio, allora forse non è necessario ribadire al visitatore che si tratti di qualcosa di sbagliato, perché sarà in grado da solo di maturare una repulsione. Poiché però il museo sarà certamente molto frequentato dalle scolaresche, allora potrebbe avere ragione il curatore a rischiare un sano manicheismo in chiave funzionale, ricordando una distinzione tra bene e male che è sempre meglio ribadire alle giovani generazioni.
Pertanto, malgrado i reperti siano vecchi di secoli, gli argomenti sono invece estremamente contemporanei, proprio oggi che si discute sulle conquiste e gli equilibri della civiltà giuridica, sospesa tra i diritti del reo e la tutela delle vittime: va quindi riconosciuto al museo il merito di fornire profondità ed elementi concreti alla formazione di un pensiero su un vulnus della società odierna.
Un museo che induce a riflettere su questi temi assume un ruolo altamente (pro)positivo, poiché è ben raro che un’esposizione possa stimolare sano dibattito e magari spingere a mettere in discussione le proprie convinzioni. Anche per questo una visita al castello di Peschici e al suo museo rientra tra le tappe importanti e perfino edificanti da compiere nel nostro Paese.
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