Parco della Scultura a Catanzaro, Museo internazionale all’aperto
Un parco che riesce a creare una fluente osmosi tra Biodiversità e Scultura, creando un’esperienza en plein air tra le più singolari e suggestive: accade nella sorprendente Catanzaro che illumina il Sud Italia con il suo esempio di civilissimo gioiello urbano responsabile, irradiando bellezza e sensibilità a tutto il Paese anche con l’imperdibile Parco Internazionale della Scultura, un museo d’arte contemporanea all’aperto che vale decisamente un viaggio in questo prodigioso angolo di Calabria.
La sua genesi mette insieme “una serie di mostre temporanee in un luogo di particolare significato storico” con “la precisa volontà di creare una collezione pubblica organica che viva all’interno della realtà urbana” e “un progetto di museo all’aperto che coinvolge direttamente il MARCA”, il Museo delle Arti di Catanzaro.
Il Parco Internazionale della Scultura ha così meritato il titolo di “primo del Mezzogiorno”, considerato “uno dei più significativi progetti di arte pubblica in ambito nazionale”, essendo ospitato “all’interno di una vasta area verde di oltre 63 ettari adiacente al centro urbano della città di Catanzaro”.
Subito in evidenza il genio di Michelangelo Pistoletto con I Temp(l)i cambiano, opera del 2010 frutto dell’ampia riflessione filosofica del Terzo Paradiso, realizzata con materiali da elettrodomestici dismessi provenienti da Ecodom con il fine di porre “una serie di interrogativi sull’accelerazione dei processi storici”, in una visione del mondo evidentemente instabile, sbilenca, a causa di un presente precario carico di oscillazioni.
Lo stesso Pistoletto si dimostra acutamente lungimirante nella premonizione geopolitica che gli fa identificare già nel 2010 Le sponde del Mediterraneo come foriere di Love Difference, disponendo sessantotto cubi litici su un prato per dare spessore tridimensionale a una cartografia tangibile del bacino del Mediterraneo, in cui ogni pietra identifica un Paese che vi si affaccia.
Una visione panica dell’umanità solidale che oggi richiama tragedie migratorie e stimola sarcastici parallelismi semantici tra i blocchi di pietra e i blocchi navali della politica.
Cast Glances (2002) dell’inglese Tony Cragg è un episodio della serie Rational Beings che vuole essere “una sfida alla dimensione razionale in base all’assoluta libertà della forma che si proietta in uno spazio emotivo”, visto come avvitato su se stesso, in una tensione creata dalla torsione della materia che sembra racchiudere energia implosiva pronta però a liberarsi in un ipotetico scatto centripeto.
Mimmo Paladino lascia il segno con i suoi Testimoni (1998) che emergono stentorei tra le siepi, quattro elementi bronzei “muti simulacri di un viaggio nell’inconscio”, esternazione della sintesi plastica dell’artista che muta in una “messa in scena che ha per soggetto il tempo e la memoria”, con l’affascinante apporto della magia e di una ritualità ieratica.
Jan Fabre con De man de wolken meet (L’uomo che misura le nuvole, 1998) spinge il visitatore a elevare lo sguardo verso la sua reinterpretazione contemporanea dell’Uomo vitruviano di Leonardo da Vinci che abbandona però la pretesa rinascimentale di collocare geometricamente la presenza umana nell’universo per rivolgersi al dramma privato dell’autore belga, il quale dona al volto dell’effige i connotati del fratello Emile scomparso prematuramente, sostenuto dal tronco sagomato sul corpo dello stesso Jan Fabre, come a riallacciare un legame spezzato dal fato e consegnarlo a un desiderio di eternità.
Il visionario Dennis Oppenheim con Electric Kisses (2009) sembra echeggiare dal titolo la Electric City in cui è nato, un centro degli Stati Uniti d’America che si trova nello Stato di Washington: forse non a caso la sua è una scultura abitabile, un “luogo pubblico e sociale” in grado di accogliere il visitatore e di farne un cittadino dell’opera.
Il Concrete Mixer (2007) del belga Wim Delvoye è una trasfigurazione neogotica di una betoniera privata della propria dimensione funzionale, in cui la meccanica viene sostituita da “una presenza monumentale che evoca le antiche cattedrali del Tre e Quattrocento”, quasi l’intrusione di un severo monito tardomedievale al nostro superficiale presente in fieri.
Il londinese Antony Gormley con Seven Times (2006) replica sette volte se stesso attraverso altrettanti calchi stilizzati del proprio corpo, tutti rivolti verso il mare, come a cercare una via di fuga non soltanto prospettica verso un orizzonte infinito, inseguito dagli inquietanti simbolismi del numero 7 che ambiscono a sistematizzare una vorace cosmogonia che fagocita anche il destino umano.
Il tedesco Stephan Balkenhol ci fa prendere una pausa dal parossismo solipsistico mettendo in controverso dialogo spaziale Uomo e Ballerina (2005), “eliminando ogni forma di pathos”, con le due figure che rimangono “estranee una all’altra”, eppure in sottesa comunicazione nascosta dallo sguardo dell’ironia.
Affidiamo la conclusione del nostro percorso al respiro di sollievo ludico dell’apparente frivolezza di Totem (2007) del britannico Marc Quinn che somatizza nella gigantesca testa di Darth Vader, personificazione del Male nella saga cinematografica di Guerre Stellari, la lettura di “un reperto della contemporaneità che consente all’arte di riflettere sull’immaginario filmico in una presa di distanza dal contesto reale”.
Un allestimento che regala una sensazione di rara grazia visiva che diviene balsamo per lo sguardo incrostato di orrore quotidiano e stimolo per la ricerca dell’armonia anche in luoghi insperati.
Nel video che segue, appunti visivi del nostro tragitto da osservatori.
Info: http://www.museomarca.info/schede/parco-internazionale-della-scultura_2910/