Il premio a Bottura che fa male a tutta l’Italia e alla sua Cultura
Massimo Bottura non rappresenta la cucina italiana, ma soltanto una parte di essa, elitaria, la quale rinnega nei fatti le fondamenta della nostra cultura gastronomica. Quindi la notizia del suo primo posto in una discutibile classifica, rappresenta una distorsione dell’immagine dell’Italia e dell’autentica tradizione della nostra tavola. Perché la vera gloriosa Alta Cucina italiana è soltanto quelle delle osterie di tradizione che propongono in maniera fedele e rispettosa i piatti della nostra memoria storica, a prezzi accessibili a tutti.
Purtroppo i media hanno preso sul serio lo pseudo-evento World’s 50 Best Restaurants che, pur essendo promosso da una rivista inglese, in realtà è una manifestazione totalmente priva di scientificità che esiste soltanto grazie alla sponsorizzazione di S. Pellegrino e Acqua Panna: un’iniziativa che non ha nulla di oggettivo e pertanto non rappresenta un riconoscimento istituzionale.
Perfino la pur osannante Repubblica ammette che “la classifica è discutibile e discussa, visto che i giurati possono votare per qualsiasi ristorante senza dimostrare di averlo visitato”.
Con il clamore dato a questa iniziativa pubblicitaria, si è però fatto un grave danno all’immagine del nostro patrimonio enogastronomico più sincero che non è affatto rappresentato da Bottura e da tutti gli altri stellati, bensì dalla ristorazione tradizionale che custodisce e valorizza le ricette di sempre.
Bottura si è impadronito della parola “tradizione”, usandola ai fini della comunicazione, quando invece la vìola ogni giorno, stravolgendola a suon di magheggi che sono irriverenti rispetto alla dignità del nostro patrimonio culinario antico.
Per fare abboccare clienti e operatori mediatici, Bottura nella sua Osteria Francescana ha titolato una parte del menu “Tradizione in evoluzione”, sfoderando al suo interno nomi di piatti come “Ricordo di un panino alla mortadella”, “Cesar salad in Emilia” e “Oops! Mi è caduta la crostata nel limone”: sembrano scritti dagli autori satirici di Maurizio Crozza, invece purtroppo qui non c’è traccia di ironia, ma la drammatica dimostrazione di una programmatica mancanza di riguardo verso l’integrità della nostra tradizione.
Piatti come Bollito non Bollito o Compressione di pasta e fagioli stimolano un senso di comicità involontaria, ma su un importante quotidiano vengono invece definiti avanguardia, accusando il nostro passato culinario glorioso di essere prigioniero di se stesso: lascia basiti leggere una definizione così negativa della nostra Cultura, anche se poi si tratta della stessa struttura editoriale che ha pubblicato più volte la ricetta sbagliata della Pasta alla Norma (a proposito di tradizione…), proprio per la scelta incomprensibile e incongrua di affidare agli stellati il compito di parlare di tradizione culinaria.
A imbeccare certe frasi alla stampa sembra essere lo stesso Bottura, quando nel suo menu scrive “guardiamo alle tradizioni gastronomiche da un punto di vista critico e non nostalgico, per portare il meglio del passato nel futuro”. Una involontaria ammissione della programmatica volontà di tradire l’identità culturale gastronomica dell’Italia.
Ma i piatti della nostra tradizione, le ricette ancestrali della cucina italiana, hanno valore antropologico, storico, sociale, altro che nostalgia. La Pasta alla Norma, l’Amatriciana, la Cassoeula, il Frico, la Ribollita, le Orecchiette con le cime di rapa, il Brodetto marchigiano, il Casatiello e tutte le nostre vecchie ricette hanno la stessa importanza del Colosseo, degli Uffizi, del Cenacolo, della Valle dei Templi, di Pompei, perché alla stessa maniera raccontano l’identità più profonda di un Paese e della sua gente.
Bottura è già ricco e famoso, ha tutta la stampa inginocchiata ai suoi piedi, quella sì acriticamente, quindi che bisogno ha di appropriarsi indebitamente anche di temi che non gli appartengono e che non rispetta con la sacralità che meritano?
Sarebbe un grande gesto di umanità e di responsabilità se Bottura la smettesse di parlare di tradizione e di territorio, lasciando questi temi a chi li ama e li cura davvero, ogni giorno, con fatica e senza i riflettori puntati: si tratta di quei cuochi che mandano avanti osterie e trattorie, con l’immensa umiltà di riproporre le ricette antiche nella stessa maniera in cui si sono sempre fatte, ovvero come le facevano i loro padri e i loro nonni.
Si tratta di cuochi che compiono una concreta azione di salvaguardia dei nostri beni culturali gastronomici, perché mantengono vive tradizioni secolari, con fierezza e orgoglio: altro che nostalgia, questa è DIGNITA’, è amore per il proprio Paese. Ed è anche rispetto per la Democrazia, perché i loro prezzi decenti consentono a tutti di godere della cucina tradizionale, al contrario di quella stellata, appannaggio di un inaccettabile concetto classista che esclude la maggioranza anche soltanto dal poterla provare.
Fare cucina per pochi eletti come fanno gli stellati è oscurantismo, mentre la Cultura è permettere a tutti di godere i piatti della vera tradizione come fanno le osterie.
Il lavoro di Bottura equivale a quello di un eventuale artista contemporaneo che dovesse distruggere fisicamente un tempio greco per farne una sua opera moderna: in quel caso interverrebbero la Soprintendenza ai Beni Culturali e pure la Polizia a impedire un simile scempio. Se invece avviene lo stesso nella ristorazione, scattano le odi di tutti i media.
Ci dissociamo da questo delirio e abbracciamo forte invece i veri grandi cuochi della cucina italiana.
Perché il migliore ristorante italiano non è affatto l’Osteria Francescana, bensì sono ben altri, come l’Osteria al Bianchi di Brescia, l’Osteria Verona Antica di Verona, la Locanda al Lago di Monte Isola (BS), Checchino dal 1887 a Roma, Osteria Cipolla Rossa a Firenze, Il Mangiabuono a Genova, Trattoria Vasco e Giulia a Comacchio (Ferrara), La Casa di Ninetta a Napoli, La Miniera a Tignale (BS), Osteria Nero d’Avola a Taormina (ME), Trattoria La Stazione a Castel d’Ario (Mantova), Il Bianco e il Nero a Marina di Nicotera (VV), Agriturismo Borgo Deodato a Villarosa (EN), Trattoria dei Commercianti a Borgomanero (Novara), Ristorante Prosciutteria Martin Dok Dall’Ava a Pordenone, Buffet Da Pepi a Trieste, Osteria La Rava e La Fava a Busto Arsizio (VA), Masseria Cinque Santi a Vernole (Lecce), Il Genovese ancora a Genova, Porto di Savona a Torino, Agriturismo Le Caselle a San Giacomo delle Segnate (Mantova), Osteria del Pescatore a Tropea (VV); senza dimenticare le migliori pizzerie colte italiane, anche queste molto più importanti di Bottura e del suo locale: parliamo di perle come Da Michele a Napoli, Piedigrotta a Varese, Lachea ad Acitrezza (CT), Roscioli a Roma, Lipen a Triuggio (MB), Vai di pizza! a Solbiate Olona (VA). Infine, citazione d’obbligo per Don Minico a Colle San Rizzo (Messina) che da oltre sessant’anni propone una sola pietanza, la Pagnotta alla Disgraziata, farcita di prodotti poveri del territorio: è meta di pellegrinaggi di gourmet e perfino la contestabile Guida Michelin è stata costretta a occuparsene, a dimostrazione che la sostanza non ha bisogno della cucina circense con grotteschi espedienti come gel, sifonature, letti, riduzioni, spume ghiacciate, demì-soufflé e altre amenità del genere.
La prossima volta che dovrà ricevere un presidente di una nazione straniera, il nostro Presidente del Consiglio lasci perdere l’ovvia e non rappresentativa Osteria Francescana e compia davvero un atto di cambiamento culturale, portando quella personalità a mangiare in una delle grandi autentiche osterie di tradizione: perché è lì che si manifesta l’Italia vera, quella della fatica ignorata dai media, ma premiata ogni giorno dal Paese reale.