Santa Lucia, vini cru di Puglia a produzione limitata di intensa unicità
Quando il legame con una tradizione familiare è lungo almeno quattro secoli è inevitabile che il suo richiamo continui a essere potente anche per le generazioni odierne, come è avvenuto per Giuseppe e Roberto Perrone Capano, i quali, pur essendo impegnati a Napoli in diverse attività professionali, hanno deciso di tornare alla terra d’origine, quella di Puglia, in cui affondano le radici della loro famiglia almeno fin dal XVII secolo.
L’attività dell’azienda agricola è testimoniata infatti già nel 1628, grazie a un documento nel quale si afferma testualmente che “Marc’Antonio Perrone possedeva annui ducati 60 di fiscali feudali sopra Quarati”, quest’ultimo toponimo antico dell’odierna Corato in provincia di Bari in cui si concentra la coltivazione di “cloni selezionati di vitigni tipici della Murgia”, a circa 300 metri di altezza sul livello del mare dove nella contrada Santa Lucia che dà il nome alla cantina.
La Murgia alla quale si fa riferimento è quella “alle pendici del Castel del Monte, il famoso feudo normanno ottagonale voluto dall’Imperatore Federico II di Svevia, zona altamente vocata per la produzione di vini rossi e rosati”.
I documenti raccontano che il 1822 è “l’anno di redazione della planimetria del casino (la villa, nel gergo locale) adibita a ricovero persone, attrezzi e animali, oggi esposta nel salone della villa; la più antica planimetria del vigneto, visibile nell’attuale ufficio dell’azienda, è invece datata 1849”.
La nobile storia della costruzione è testimoniata dai suoi valori architettonici, tra uso di pietra massiccia di Trani, archi interni, mura perimetrali larghe, tetti in tegole con solai a volta, mentre le cantine “sono scavate sotto il livello del suolo per garantire temperature ed umidità ottimali di conservazione dei vini e dei legni in rovere della bottaia”.
Nei campi si pratica l’agricoltura biologica fin dal 2009, dal 2016 dotata anche di certificazione.
L’Azienda chiarisce subito di produrre vini “esclusivamente dai propri vigneti, in prevalenza autoctoni, i cui cloni sono frutto di selezioni massali, senza procedere all’acquisto né di uve né di vini”, aggiungendo che “la cura del vigneto, la filosofia bio-dinamica, il moderato utilizzo di barriques in rovere francese Allier e Tronçais e l’abolizione delle pratiche di stabilizzazione e filtrazione, esprimono vini di eccellente tradizione artigianale uniti alle migliori qualità del proprio territorio: tipici, riconoscibili, ben strutturati, dal gusto maturo e fruttato”.
I terreni “sono coltivati con la cura di un giardino, pianta per pianta, in virtù di una passione che ha sempre spinto i conduttori a considerare l’attività vitivinicola una filosofia, con l’assoluta priorità della qualità del prodotto rispetto ad ogni considerazione di mercato”.
Per questo la produzione annua è limitata a circa 50.000 bottiglie.
La vendemmia è effettuata a mano, usando cassettine di legno “per selezionare i grappoli e consentire al frutto di giungere integro alla pressatura”, la quale avviene entro un quarto d’ora dalla raccolta.
Dopo la svinatura “il mosto completa la fermentazione alcoolica in acciaio inox; la fermentazione malolattica e l’affinamento (8- 12 mesi) avvengono in cantine interrate; l’affinamento dei vini destinati a Riserva (18 mesi) avviene in barriques di rovere francese Allier e Troncais da 228 litri di solo primo passaggio, l’imbottigliamento avviene dopo circa due anni di affinamento complessivo (legno + vetro) e la commercializzazione nel terzo anno successivo al raccolto”.
Si presenta inevitabilmente come capolavoro assoluto la Riserva Le More tratta dalla meravigliosa Uva di Troia in purezza che dona al naso tutto il corredo del sottobosco, compreso muschio e fogliame fresco, unendovi percezioni di polpa di frutta matura.
Il corredo organolettico parte da un’intenzione minerale zampillante di sentori di mora selvatica, susina rossa, carruba, visciola e cioccolato bianco.
Corposo, soavemente astringente, è illuminato da un’acidità che ingolosisce la beva in maniera formidabile.
Finale all’insegna di un irresistibile piglio zuccherino.
Una prelibatezza che lo proietta nell’Olimpo dei vini mondiali, meritevole di dare corpo alla mitologica ambrosia degli dei.
Altro capolavoro è Il Melograno, ancora da Uva di Troia al 100%, dal fantastico bouquet di marmellata di more, cui segue al gusto un succedersi di amarena in sciroppo, sorbo dell’uccellatore, prugna brusca e dulce de membrillo (la cotognata rustica e granulosa secondo ricetta spagnola), sensazioni innervate costantemente da note speziate.
Tannico, materico, manda in visibilio con una beva piena, rotonda e appagante.
Nel finale, il contributo del tempo in fieri e dell’ossigenazione lo porta allo stadio di un nettare.
Il Fior di Ribes è un Rosé anomalo e fuor di moda, fortunatamente, perché nell’interpretare il rosato non lo svilisce come accade quasi ovunque oggi attraverso prodotti omologhi pallidi ed esangui svuotati di ogni vigoria pur di non disturbare palati incolti, bensì mantiene il nerbo del vitigno di cui è espressione, il magnifico Bombino Nero, trattandolo però in maniera tale da lasciare esplodere tutti i suoi riferimenti fruttati.
E’ così che all’olfatto offre fragoline di bosco in trionfo, mentre in bocca la fragola che si avverte è quella Candonga, seguita da corbezzolo, mirtillo rosso americano (Cranberry) e da note acidule di karkadè.
Il Gazza Ladra da uve Fiano in purezza seduce con un bel profumo di gelsomino e viola, prima di manifestarsi al palato ricco di aromi e acidità, proponendo ananas, alchechengi, pera Williams, fino a una sublime nota amaricante di Cirmolo.
Ci si lascia cullare da un finale di suadente persistenza che vellica le papille gustative.
Tra i bianchi più originali e spiazzanti che si possa avere la fortuna di incontrare in un bicchiere.
Con la Cultura si beve dunque e anche molto bene. Lo dimostra pienamente l’esperienza della famiglia Perrone che trae dal rigore etico, dalla preparazione professionale e dalla competenza gnoseologica prodotti capaci di infondere anche infinito piacere ludico, affermando una volta di più ma con estrema forza come il vino sia veicolo di valori inscindibili dal piacere che arreca tra la tavola e il bicchiere.
Il riscontro dei tanti citati pregi sensoriali derivanti da una severa applicazione scientifica dimostra la pregnanza antropologica dei vini di Santa Lucia, in ogni sorso dei quali sono presenti stille della vicenda millenaria del territorio d’elezione, reperti di archeologia del sapore, stratificazione della pedagogia empirica, coerenza dinastica, tutto da associare alle insondabili quanto invincibili ragioni del cuore.
Si ha così conferma dell’inestricabile relazione tra il lemma coltura e il termine cultura, parole fondanti della civiltà umana dalla comune radice semantica, dove ancora una volta il concetto di radicamento parte dalla terra per farsi metafora universale, quasi una sineddoche della consapevolezza assunta dalla nostra specie vivente. Diventa allora tangibile l’analisi di Mario Fiorillo nell’affermare che “la semantica del termine cultura non affonda le sue radici in un’etimologia che rappresenti, come nel linguaggio odierno, il progresso intellettuale dell’individuo; essa alle origini sta ad indicare la trasformazione della natura attraverso un processo di manipolazione della terra” (con Silvia Silverio, in Cibo, cultura, diritto, Stem Mucchi Editore, Modena, 2017, p.9).
Ed è proprio manipolando la terra con il contributo della mente che nascono i cru di Santa Lucia, sospesi tra la gioia terrena e l’estasi dell’assoluto.
Info: https://www.vinisantalucia.com/home.php?lang=IT