Scontro tra Regione Toscana e produttori di vino sul Paesaggio: troppi filari e poca anima
I grandi vitivinicoltori della Toscana hanno perso l’anima. E con essa anche la Memoria e il rispetto delle loro stesse origini.
La dimostrazione lampante arriva dalla polemica esplosa in queste ore in seguito all’annuncio di un Piano Territoriale da parte della Regione Toscana che vorrebbe tutelare il paesaggio dall’invadenza dei filari. Alla sensata osservazione virgolettata dal Corriere della Sera secondo cui i filari “sono troppi, il paesaggio è di tutti”, si legge la risposta dei produttori: “è una visione antica”. Dunque la tutela del paesaggio per i grossi produttori di vino in Toscana sarebbe soltanto un trascurabile retaggio del passato? Sconcertante.
Sì, sconcerta questa denigrazione delle nostre radici manifestata da chi produce un elemento identitario del Paese come il vino.
Una mancanza di considerazione per la tradizioni che emerge anche da altre dichiarazioni della pagina che il Corsera dell’8 settembre ha dedicato alla questione, quale “la Regione Toscana vuole riportarci agli anni del dopoguerra, quando nelle campagne si faceva la fame; ma davvero sognano il ritorno dei mezzadri con tre filari di viti, un olivo e due mucche?”.
La dichiarazione è del massimo responsabile del consorzio di uno dei più celebrati vini italiani, il Brunello di Montalcino, il quale inorridisce davanti all’immagine di “un’agricoltura con le pecore, i maiali, il boschetto e gli olivi”: dichiarazioni che lasciano allibiti, visto che provengono da un operatore dell’agroalimentare. Davanti a queste frasi, rimangono basiti tutti coloro che nel vino vedono anche e soprattutto Cultura e Identità di un popolo.
Invece “sì”, rispondiamo noi, sogniamo proprio “il ritorno dei mezzadri con tre filari di viti, un olivo e due mucche”, ovvero quei contadini che con immensa dignità hanno mantenuto alto il valore storico del vino in Italia, prima che altri vi lucrassero sopra. Non ci sarebbero oggi le mega aziende di produzione di vino, se non ci fossero stati questi solitari mezzadri con la schiena curva sulla terra che si sono ammazzati di fatica per una vita intera, con immenso amore per l’anima più nobile del nostro nettare identitario.
Un amore che non si coglie affatto dalle dichiarazioni di alcuni esponenti dei consorzi dei produttori toscani. Dalle loro dichiarazioni sui giornali si evince soltanto una rincorsa al profitto, talmente cieca da fare perdere di vista le ragioni della Storia e della sensibilità umana.
Perché quei mezzadri che i produttori vorrebbero come inutile retaggio del passato, invece esistono ancora e lottano fieramente per salvare la vera anima del vino. Sono eroi del nostro tempo che rispettano il paesaggio ancora più del proprio portafoglio, perché sanno che il vino ha memoria e stravolgerne il contesto vuol dire snaturarlo.
Parliamo di gente come Salvo Foti che in Sicilia lavora ancora le vigne con l’impiego di un asinello, o di Fausto Andi che nell’Oltrepo pavese rispetta la collocazione dei filari tra gli alberi da frutto, producendo il vino con le tecniche del ’500, con enorme fatica ma immensa dignità.
Per questo l’accusa di “inquinare” il Paesaggio riportata dal Corsera a carico dei grossi vignaioli ci appare quella meno importante. Il vero crimine qui è l’offesa arrecata al Passato, visto soltanto come tempo di miseria, in una visione modernista asservita alle ragioni del business.
Come sempre fanno gli amanti del capitalismo più sfrenato quando vengono attaccati, anche i grandi produttori in questione agitano il solito grimaldello ricattatorio dei posti di lavoro che devono essere tutelati, come al solito sempre più importanti di tutti gli altri contesti sociali e culturali.
Tutto ciò è il riflesso di quanto avviene nella produzione del vino. Tolte le declinazioni del Sangiovese, il vino toscano è una genuflessione a vitigni e metodi derivati dalla Francia, mentre si lasciano nel dimenticatoio gli autoctoni meno noti.
Per non parlare dell’orrida definizione Super Tuscan che negli ultimi quaranta anni ha sventrato l’anima contadina del vino toscano. Tra gli alfieri, quella famiglia Frescobaldi che non a caso nella citata pagina del Corsera si schiera contro l’ipotizzato provvedimento della Regione Toscana, sparando a zero contro i cosiddetti “conservatori in agricoltura” e sostenendo la causa della competitività, evidentemente a scapito di tutto il resto.
Come ci si può vantare del successo internazionale di vini di taglio bordolese o di magheggi enologici come il Super Tuscan che non appartengono alla storia ancestrale di questo territorio, quando invece quasi nessuno vinifica in purezza e valorizza davvero un antico vitigno toscano come il Colorino?
I responsabili dei vari consorzi di vino toscano farebbero bene a leggersi il prezioso volume su Firenze di Iris Fontanari Martinatti, edito dall’encomiabile Proposta Vini per la collana I vini nelle città italiane. Un volume che si apre con la considerazione che “la vite esisteva in Toscana prima ancora della comparsa dell’Uomo”, dato di fatto che già da solo pretenderebbe massimo rispetto nei confronti del passato enoico di questa terra.
Quel passato di cui sono testimonianza vitigni preziosi come Foglia Tonda e Barsaglina, i quali, in una serata di degustazione dell’Ais (Associazione Italiana Sommelier) di Pisa, sono stati tristemente e purtroppo giustamente definiti “autoctoni dimenticati”.
Per fortuna in Toscana ci sono anche i piccoli ma agguerriti produttori che lavorano per amore della terra e non soltanto del guadagno economico. Come Guido Gualandi che nella frazione di Poppiano del comune di Montespertoli (Firenze) produce con metodi di un tempo proprio il Foglia Tonda in purezza, oltre ad altri “vitigni antichi toscani” come Pugnitello, Colorino, Malvasia Lunga del Chianti e Coda di Cavallo.
Guarda caso, Gualandi sarebbe ben favorevole a una legge in difesa del Territorio, “perché le viti storicamente qui sono sempre cresciute in mezzo agli altri alberi, mentre adesso c’è chi sta abbattendo gli ulivi per fare spazio ai vigneti che rendono di più commercialmente”.
Gualandi individua un grave danno nella ricerca del profitto da parte delle grandi aziende, la cui maggiore responsabilità è però di “avere omologato il gusto dei consumatori, abituandoli a vini facili e tutti uguali”, così da rendere ostici al palato non allenato il gusto dei vini da uve autoctone.
Per fortuna Gualandi non si arrende: “i piccoli produttori operiamo in una nicchia, però grazie a noi oggi i vitigni un tempo dimenticati non sono più tali”.
Sarebbe meglio che si rinfrescassero la memoria anche coloro che oggi snobbano il Passato e la Cultura vitivinicola locale, perché quando si parla di vino, le ragioni dell’economia non posso trascendere quelle del cuore e del buon senso.