Scopriamo San Paolo Albanese, centro della cultura arbëreshe in Basilicata
I giornali ne parlano per la bassa natalità, i libri di turismo per evidenziare il suo essere il più piccolo comune della Basilicata, ma la realtà è che bisognerebbe invece indicare San Paolo Albanese come uno dei luoghi più affascinanti del mondo.
Lo splendore dell’ambiente naturale circostante e i pregi architettonici del suo cuore urbanizzato, fanno da magnifica cornice al denso fenomeno culturale di una comunità xenogena rimasta da secoli immutata in ogni suo aspetto ancestrale, tanto che San Paolo Albanese può essere considerato il centro della cultura arbëreshe in Basilicata: non si può comprendere pienamente la terra lucana senza averlo visitato.
Il suo nome in lingua arbëreshe è Shën Paliji e un pieghevole edito dal comune potentino spiega che la sua piccolissima comunità “è una minoranza etnico-linguistica di origine albanese, formata da profughi insediatisi nelle terre aride dello Stato di Noia, concesse loro dai regnanti di Napoli nel versante nord-orientale del Pollino”, approdata qui “tra la fine del XV e gli inizi del XVI secolo”, fuggendo dalle coste orientali dell’Adriatico dopo il 1468, in seguito a una serie di eventi, tra i quali l’invasione ottomana dei Balcani.
Un esodo che ha riguardato intere famiglie, le quali hanno portato con sé “le singolari e autentiche tradizioni, gli usi, i costumi, la lingua, il rito religioso greco-bizantino, le feste popolari, i resti materiali” e ancora “la memoria, le radici, l’identità”, mantenendo tutto ciò intatto da quando si sono stabiliti a San Paolo intorno al 1534 fino a tutt’oggi.
Merito non soltanto della compattezza culturale della comunità arbëreshe, ma anche dell’isolamento geografico, dovuto al suo essere abbarbicato a 850 metri di altitudine, tra le strade impervie del Parco del Pollino, in piena Valle del Sarmento: oggi con le automobili la strada per giungervi rappresenta una panoramica passeggiata a bassa velocità, ma al tempo in cui ci si muoveva a piedi o con mezzi trainati dagli animali, le mete anche più vicine in linea d’aria potevano comportare giorni di viaggio.
Se a questo si sommano le “ragioni di una cultura agro-pastorale, materiale, analfabeta” che ha favorito un’impermeabilità sociale tale da impedire la “mescolanza con le popolazioni indigene”, si spiega allora come sia stato possibile preservare tutti gli aspetti identitari della comunità, laddove invece collettività albanesi ben più numerose li hanno perduti da tempo.
Per questo ha ben ragione il Comune a definire la minoranza etnico-linguistica di San Paolo Albanese “una risorsa culturale unica e irripetibile”, ma anche una “emergenza”, soprattutto a pochi giorni dall’allarmante articolo della Gazzetta del Mezzogiorno intitolato Stanno scomparendo i comuni del Pollino: altro anno senza vagiti che ha messo in testa al fenomeno proprio San Paolo Albanese. La notizia è che nel 2017 “nel piccolo, accogliente Comune arbereshe del Sarmento, alle spalle della grande montagna meridionale, non è arrivata neppure una volta la cicogna, riprendendo così il trend negativo che si è registrato negli anni immediatamente andati ormai iscritti nel libro della storia locale”, tanto da presagire che di questo passo San Paolo Albanese sia “destinato, se non si verificherà un’inversione di tendenza, a scomparire dalla mappa dei Comuni italiani”.
I dati parlano di una popolazione residente di appena 270 abitanti, dei quali ben il 70% è costituita da anziani. Per questo da anni le amministrazioni comunali che si sono succedute hanno continuamente posto all’attenzione delle autorità regionali e nazionali il problema della sorte di San Paolo Albanese.
Uno dei modi per sostenerne la causa è incrementare il turismo in questa località e di valide ragioni per visitarlo ce ne sono tante.
A partire da un ordito urbanistico di rara grazia, con la sua “edilizia fatta di vicoli (rruga) e di slarghi (sheshe), di case contadine, di murature in pietra, di architettura spontanea”.
Se l’impatto iniziale è con la monumentalità di certe costruzioni litiche che sembrano usare il metodo arcaico della muratura a secco…
… affinando lo sguardo si colgono gli eleganti porticati…
… i quali in alcuni casi recano l’iscrizione della data di completamento, come nel caso di Palazzo Smilari…
… oppure sono cinti da enigmatiche maschere apotropaiche…
… mentre gli sguinci sui muri esterni della abitazioni narrano l’esigenza di favorire il passaggio dei carri trainati dagli animali da soma, come da consuetudine nelle società bucoliche.
Gli echi contadini lasciano traccia anche nelle strutture abitative che si sviluppano in verticale, in cui di solito il piano terra era adibito a granaio o legnaia e il sottotetto fungeva anch’esso da deposito.
Già irretiti da tante evocazioni liriche, l’apice dell’emozione lo si raggiunge mettendo piede nella chiesa madre, chiamata Esaltazione della Santa Croce: ammalia l’edificio risalente al 1721, ma sbalordisce la straordinaria ricchezza iconografica che si coglie al suo interno, con dipinti di rara potenza cromatica che obbediscono ai canoni figurativi bizantini, con i suoi precisi simbolismi religiosi.
I colori, accesi, non hanno intento meramente decorativo, bensì esprimono significati austeri: così il rosso è il colore che identifica la divinità, mentre il blu tratteggia la natura umana.
Seguendo questi codici interpretativi si leggono fluentemente i significati di quadri e icone, non in cerca di seduzione dell’occhio bensì di dialogo con l’interiorità dell’osservatore: per questo quando vediamo la figura di Gesù con una tunica rossa coperta da un manto blu, il chiaro rimando è alla sua natura divina che però si fa carnalmente umana.
Certe opere palesano complesse strutture narrative, riassumendo in un’unica composizione racconti biblici esemplari…
… mentre altre fiammeggiano di solennità, come i drappi rosso fuoco della vigorosa rappresentazione della dormizione in cui sonno e morte viaggiano in parallelo, elemento importante di fede, tanto da meritare una celebrazione il 15 di agosto.
La chiesa brilla anche per la sua teoria di santi apostoli…
… con le loro espressioni tra il consolatorio e l’ammonimento, tra l’indagatorio e il compassionevole…
… contrappuntando di puro splendore l’iconostasi, la parete ricoperta di icone che nella ritualità orientale si pone tra l’altare e il resto della chiesa, retaggio di antica cristianità.
In chiesa a ricordarti di essere nel cuore di un’enclave socio-culturale è il foglio che riporta il programma della liturgia, con l’antifona riportata in tre lingue, arbëreshe compreso.
Tale rito è arrivato fino a noi nella sua essenza originale, grazie sempre all’isolamento fisico che ha consentito a questa comunità di non seguire certe imposizioni liturgiche emanate dalle autorità religiose dominanti: queste ultime, di stanza a Tursi, lontana anche due giorni di percorso in mulattiera, non erano in grado di controllare costantemente la reale applicazione delle proprie limitazioni nella comunità di San Paolo, dove i fedeli del rito bizantino hanno continuato così a seguire i propri antichi cerimoniali e non le nuove leggi terrene del potere temporale della Chiesa scaturite dal Concilio di Trento in poi.
Commuove vedere ancora oggi anziane donne recarsi alla funzione religiosa con il tipico costume della comunità: avendo visitato San Paolo di domenica, siamo riusciti ad assistere anche al loro incedere carico di consapevolezza remota.
Di questi abiti tradizionali c’è un’imperdibile esposizione nel pregevole Museo della cultura arbëreshe voluto dal Comune di San Paolo per raccogliere testimonianze di tale realtà, al fine di costituire “un luogo ed un modo di conservare, tutelare, valorizzare, promuovere l’identità culturale, territoriale, sociale, economica della comunità locale”, come si legge sul sito del Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo (http://www.beniculturali.it/mibac/opencms/MiBAC/sito-MiBAC/Luogo/MibacUnif/Luoghi-della-Cultura/visualizza_asset.html?id=151525&pagename=57).
Nato come mostra agropastorale, nel 1975, e vissuto, negli anni immediatamente successivi, come recupero e valorizzazione degli oggetti della cultura materiale, lasciati nei loro contesti originari, nelle case contadine del centro storico”, prosegue il sito del MiBAC, il Museo espone “oggetti della cultura materiale”, documentando “la cultura orale, popolare, agropastorale”, attraverso “oggetti di uso quotidiano, costumi tradizionali, i prodotti e gli attrezzi della vita domestica e lavorativa”, illustrando anche “le fasi di lavorazione della ginestra, dalla raccolta, alla trasformazione, alla produzione di tessuti, sia attraverso la documentazione fotografica, sia attraverso l’esposizione di attrezzi da lavoro”.
Tutte le informazioni, insieme a un ricco corredo di immagini, si trovano sul sito ufficiale: http://www.museoarbereshe.it/.
La visita a San Paolo Albanese ha lasciato un profondo segno nella nostra sensibilità: rimarrà indelebile l’incanto provato incuneandoci nei reticoli viari del centro storico, guidati con immensa competenza da Rosangela Palmieri, collaboratrice del museo, profonda conoscitrice del luogo sotto ogni aspetto, ma soprattutto in grado di trasmetterti empaticamente l’amore per tale luogo speciale.
Nel video che segue, gli scorci più intensi che abbiamo catturato con il nostro obiettivo.