Specialmente… in provincia di Verona: cosa vedere e dove mangiare
Nel Veronese, dove l’Uomo ha sposato la Natura
Appena esci dalla città di Verona, qualunque direzione tu prenda, vieni avvolto dal potente abbraccio dalla Natura. Non una Natura solitaria, bensì sempre e comunque sposata con l’Uomo. Che lo coltivi o che ci costruisca sopra fabbriche, non c’è angolo di ambiente naturale che non presenti tracce dell’intervento virtuoso dell’Essere umano.
Mai che si abbia la sensazione di una violenza arrecata al Territorio: i campi coltivati sembrano in armonia con l’ambiente esattamente come le fabbriche, simulacri dell’operosità di gente che ha saputo tirarsi fuori dalla miseria e diventare un esempio per il Paese.
Altro che miracolo del Nord-Est: se entri a fondo nella società di quest’area, ti rendi conto che nulla è stato delegato al destino o a eventi prodigiosi, bensì ci si è affidati alla forza della braccia e alla brillantezza delle menti dei locali.
I veneti hanno capito che la natura circostante era risorsa preziosa, alleandosi con essa anziché depredarla.
Grazie a ciò, la provincia di Verona appare come un’immensa distesa di bellezza, anche quando di strettamente bello c’è poco o nulla, perché è l’aria stessa a esserne intrisa.
L’aria che ossigena colture da cui nascono eccellenze gastronomiche note in tutto il mondo: da uno dei risi più originali in assoluto, alle viti da cui scaturiscono vini da perdere la testa.
Ma qui il cuore ce l’hanno anche gli imprenditori, non paghi di realizzare giusto profitto, bensì pronti a finanziare bellezza a loro volta, magari creando musei meravigliosi come il Nicolis di Villafranca.
Quel che vedono gli occhi, è una perfetta rappresentazione antropologica: industria e agricoltura che si alternano una dopo l’altra, quasi fondendosi, come se non ci fosse distinzione tra lavoro alto e basso, tra antico e moderno, ma soltanto una concertata azione di arricchimento del Territorio.
Prendete idealmente un’automobile e immergetevi con noi tra le strade verdeggianti del Veronese: una continua bellezza da mangiare con gli occhi.
Poiché da queste parti sono organizzati, idealmente in provincia di Verona si possono seguire tutte le declinazioni dell’esperienza turistica. Dal turismo industriale a quello gastronomico, dal rurale all’artistico, quindi ancora il turismo legato alle ville venete, il turismo congressuale, il cicloturismo, senza dimenticare gli itinerari della fede, la pedemontana, le strade del vino e la strada del riso.
Per averne un (as)saggio, seguiteci nelle prossime righe…
Museo dell’Auto Nicolis: la Bellezza di un’impresa
Un mirabolante esempio di cosa possa realizzare l’immenso fuoco di una Passione vitale: uno spettacolo di cuore, intelligenza e meraviglia condensato in un Museo che racconta l’irrefrenabile desiderio di movimento coltivato dall’Uomo.
Il luogo da ammirare è il Museo Nicolis a Villafranca di Verona.
La passione è quella per il collezionismo di un grande imprenditore che ha diviso l’intera sua esistenza tra la crescita di un’importante azienda e la creazione di questo strabiliante museo, Luciano Nicolis.
Il Museo Nicolis tecnicamente sarebbe un Museo d’Impresa, in quanto creato e sostenuto da un’azienda, ma qui la vera impresa è stata quella di mettere insieme centinaia di preziosi oggetti d’epoca che tracciano una piccola grande storia dell’ingegno umano applicato alla tecnologia, quella dei trasporti in particolare. Infatti la dicitura completa è Museo dell’Auto, della Tecnica e della Meccanica, perché “racconta, attraverso centinaia di automobili, motociclette e biciclette, l’evoluzione dei mezzi di trasporto degli ultimi due secoli”.
Il percorso espositivo è di una tale bellezza da irretire il visitatore e non soltanto: il Museo è diventato infatti location ambita da parte di diversi registi e artisti, tanto da essere stato negli ultimi mesi protagonista dei videoclip di artisti di fama come Mario Biondi e i Modà.
Il primo impatto è il dato architettonico della struttura, la quale irrompe nel placido scenario di Villafranca di Verona, ibridazione di lirica campagna coltivata e operosa zona industriale.
Qui sorge il “museo non tradizionale voluto fortemente da Luciano Nicolis”, definito il suo “sogno lungo una vita”, “sin da quando, ragazzino, raccoglieva carta da riciclare girando in bicicletta i paesi vicino a casa”.
Imprenditore e Collezionista, Luciano Nicolis, veronese doc scomparso nel 2012, questo sogno lo ha realizzato nel 2000, facendo confluire nel Museo “gli oggetti, introvabili e preziosi, che l’interesse per la meccanica lo ha portato a cercare in tutto il mondo: automobili, motociclette, biciclette ma anche strumenti musicali, macchine fotografiche e per scrivere, opere dell’ingegno umano”. Passione che ha trasferito anche alla famiglia, come dimostra il fatto che adesso alla guida della struttura c’è la figlia Silvia.
Tra le definizioni del Museo, colpisce quella che parla di “sorprendente storia dell’ingegno umano”, raccolta non in un Museo tradizionale, bensì in “uno spettacolare e modernissimo contenitore di cultura e di idee”, sostenuto da un’azienda illuminata come la Lamacart, uno dei leader internazionali nel recupero e riciclo della carta, fondata nel 1934 proprio a Villafranca. Da notare l’eleganza dell’azienda, la quale limita la propria presenza nel Museo soltanto a un discreto corner, senza alcuna invadenza autopromozionale.
La visita al Museo si trasforma in un vortice di sollecitazioni emotive e intellettuali, tra sorpresa per le meraviglie esposte e riflessioni stimolate dalle mille storie che si intrecciano, tutte tese a rendere una rappresentazione di quanti limiti possa superare la mente umana con il proprio ingegno e di quale progresso ci abbia donato la sapiente manualità di tecnici e artigiani.
Perché il senso profondo che emerge è il virtuoso abbraccio tra idea e pratica, progettualità e manovalanza, quasi a rappresentare un mondo ideale in cui imprenditori e operai si industriano per il benessere dell’Uomo.
Proviamo a muoverci per settori in questa magnifica ipertrofica esposizione, ispirati dalla simpatica accoglienza di Freccia, la mascotte del Museo.
Le automobili. Centinaia di pezzi raccontano l’intera storia dell’anelito dell’Uomo a disporre di un mezzo di locomozione pratico che consentisse spostamenti rapidi e comodi, fino a divenire status symbol, passando per conquiste sociali e implicazioni culturali. L’esposizione narra tanto il progresso funzionale quanto l’evoluzione estetica del mito delle quattro ruote, offrendo al visitatore “centinaia di vetture perfettamente funzionanti, molte restaurate personalmente da Luciano Nicolis, tutte riportate all’antico splendore”.
Le Motociclette. La vicinanza fisica all’esposizione delle auto, esalta il carattere maggiormente romantico delle due ruote, da sempre sinonimo di libertà assoluta e perfino di ribellione: iI Museo racconta la storia delle motociclette “con cento pezzi introvabili”, dai primi velocipedi ai fiammanti bolidi odierni, passando per le prime forme di scooter, autentico salto nella nostra memoria collettiva.
Le Biciclette. “Campioni e pedali” per la sezione più epica del Museo, quella dedicata alla fatica dei muscoli di atleti leggendari o anche quelli meno stressati del ciclista della domenica.
Momenti di storia dello sport si alternano a una nostalgica rivisitazione di un passato con meno caos e più ingenuità anche nelle strade.
Ci sono poi altri approdi delle traiettorie collezionistiche di Nicolis.
Come gli strumenti musicali, in questo caso un centinaio, compresi accessori, “frutto dell’ispirazione che ha storicamente accomunato compositori e costruttori”. In esposizione fonografi, dittafoni, grammofoni, radio d’epoca.
Segue “una piccola ma preziosa collezione” dedicata alle macchine per scrivere: circa ottanta modelli che “ripercorrono le tappe della scrittura meccanica dal 1880 sino alla metà del ‘900 mostrandone i più curiosi ed ingegnosi sistemi”. Quindi le macchine fotografiche, oltre quattrocento, “con un vasto corollario di accessori e supporti tecnici”: “il microscopio, il cannocchiale, il proiettore si confrontano con le più antiche e misteriose lanterne magiche e con le moderne apparecchiature fotografiche dei giorni nostri”.
Tocca poi ai motori e soprattutto a una suggestiva collezione di volanti di Formula 1, usati in gara da piloti storici come Alboreto, Alesi, Barrichello, Berger, Coulthard, Fisichella, Hakkinen, Hill, Laffite, Mansell, Nannini, Patrese, Piquet, Prost, Trulli, Rosberg, Schumacher, Senna, Jacques Villeneuve, Zanardi.
Perfino il tetto del Museo regala un’emozione, con alcuni velivoli che vi fanno capolino, mentre dentro si trova una sezione dedicata al settore aeronautico, con l’esposizione anche di modelli di motori, accessori e strumentazioni.
Da segnalare il pregio scientifico e ancor più scenografico delle varie isole tematiche allestite nel Museo.
Una è dedicata a Enrico Bernardi, inventore nel 1882 del primo motore a scoppio funzionante a benzina, un’altra alla società di fine ’800 in Europa.
Quindi spazio alla ricostruzione di un’officina d’epoca con al centro la figura del meccanico, “ben diversa dal concetto moderno oggi diffuso: fino al 1926 egli era un professionista del mestiere che sedeva accanto al pilota durante le corse, spesso costretto ad acrobatiche peripezie (nel vero senso della parola!) per sistemare gli eventuali danni riportati in corsa”.
Notevole poi l’isola dedicata alla Prima Guerra Mondiale: manichini e cingolati riescono a restituire il senso del dramma umano che si è consumato tra trincee e campi di battaglia, senza alcuna concessione alla retorica.
Un centro documentazione, ricchissimo di reperti consultabili, impreziosisce il contributo scientifico del Museo, raccontato così dal Presidente, Silvia Nicolis.
Info: www.museonicolis.com
Il Borghetto di Valeggio sul Mincio (Verona)
Qualunque pensiero ansiogeno doveste avere, non varcherà la soglia del Ponte Visconteo, perché una volta entrati nel Borghetto di Valeggio sul Mincio, in provincia di Verona, un senso di pace si impadronirà di voi, infuso da una natura raramente così benigna.
L’ordito di antiche costruzioni che si intreccia sul letto del fiume tra canaletti e ponticelli, fa di questo luogo una sorta di piccola Venezia fluviale, dove nemmeno il flusso domenicale dei turisti riesce a spezzare l’incantesimo.
Certo, se dovessimo dare un consiglio, suggeriremmo di andarci nel cuore della settimana, magari dopo l’ora del pranzo, quando è totalmente deserto: sarà come ricongiungervi con voi stessi. E non vi stupisca se vi auguriamo di capitarci in una giornata uggiosa: il cielo coperto e plumbeo esalta il fascino tardo-romantico del luogo.
Lembo di terra di mezzo e guado acquatico doganale, confine naturale tra Lombardia e Veneto, fin dai tempi antichi il Borghetto è stato inevitabilmente destinato a essere luogo di incontro e scontro geopolitico, prima che l’Uomo pacificato si arrendesse alla sua sola bellezza.
Inevitabile il suo inserimento tra i 100 Borghi più belli d’Italia, ad opera dell’omonima associazione, la quale così lo descrive: “Borghetto, toponimo di origine longobarda che significa insediamento fortificato, è il nome del primo abitato sorto nei pressi del punto di guado del fiume Mincio. Valeggio significherebbe luogo pianeggiante”.
“La storia di Borghetto è quella di un punto di passaggio importante e di una zona di confine contesa da opposti eserciti. Il Ponte Visconteo, straordinaria diga fortificata, costruita nel 1393 per volere di Gian Galeazzo Visconti, è stato definito un check-point d´antico regime” (www.borghitalia.it).
Proprio su questo Ponte si tiene ogni anno, nel mese di giugno, la Festa del Nodo d’Amore, trionfo popolare dei Tortellini di Valeggio serviti a migliaia di partecipanti.
Tre gli animatori dell’iniziativa, il Ristorante Alla Borsa di Valeggio sul Mincio, dove sono giustamente innamoratissimi anche del Borghetto: abbiamo così chiesto alla titolare Nadia Pasquali di parlarci di questo magnifico posto.
Alla Borsa, il regno dei Tortellini di Valeggio.
Un ristorante che ti serve una verticale di tortellini, già soltanto per questa idea vale il viaggio. Se poi tra questi ci sono i famosi Tortellini di Valeggio, il viaggio diventa d’obbligo. Anche perché questo ristorante si trova immerso tra bellezze naturali e storiche capaci di condire una splendida giornata appagando tutti i sensi.
Collocato in pieno centro a Valeggio sul Mincio, in provincia di Verona, si chiama Alla Borsa perché vi si ritrovavano i commercianti del posto per concludere i contratti. Dal 1959 è gestito dalle varie generazioni della famiglia Pasquali.
Di cose allettanti in carta ne ha diverse, ma è impossibile non cedere al richiamo di un intero pranzo incentrato sui tortellini prodotti artigianalmente dalle maestre pastaie del locale, affettuosamente chiamate le Sfogline.
Su tutti, i Tortellini di Valeggio, talmente mitici che su loro aleggia la leggenda del nodo d’amore, raccontata sul sito della Provincia di Verona. Una leggenda ambientata ai tempi del Signore Giangaleazzo Visconti, una favola romantica che ha per protagonisti un soldato e una ninfa mutata in strega, la quale si conclude con “un fazzoletto di seta dorato, annodato dai due amanti a ricordare il loro eterno amore. Ancora oggi si narra come le ragazze del tempo, nei giorni di festa, per ricordare la storia dei due innamorati, tiravano una pasta sottile come la seta, tagliata e annodata come il fazzoletto dorato, arricchita da un delicato ripieno. Si trattava del Tortellino di Valeggio” (www.tourism.verona.it).
Si tratta di un soffio di pasta adagiato intorno a un gustoso ripieno di carni, senza aggiunte di formaggio o salumi. Serviti in brodo, l’impasto aleggia con eterea consistenza, quasi fosse una crema che avvolge delicatamente il prezioso contenuto di brasato. Un ripieno non aggressivo ma di massima soddisfazione.
I tortelli al burro poi sono un miracolo, un alito di gusto che non necessità di altro.
I tortelli di zucca sono dolci, in versione mantovana con mostarda e amaretti, tripudio di golosità. Anche quando si uniscono a un denso ragù di carne tagliata al coltello.
Casomai non doveste essere sazi (ma è impossibile…), un passaggio con le sfogliatine al radicchio e zucchine metterà a posto l’appetito: piatto popolare di sicura piacevolezza.
La pasticceria è autoprodotta, ma la vetta di originalità la si raggiunge con la buonissima frutta sciroppata fatta in casa, imperdibile: provatela al fianco di una delle loro buonissime crostate.
Il pranzo è stato accompagnato dai vini di Monte del Frà, azienda agricola situata sulla Strada Custoza, a Sommacampagna (Verona). Il loro celebrato Cà del Magro è un Custoza Superiore molto ruffiano, assemblato per piacere a tutti, alle guide come ai bevitori meno esperti: ma un blend di ben sette uve, poche delle quali autoctone, parla del lavoro di un enologo più che del territorio, quindi non emoziona.
Molto convincente invece il loro Valpolicella Classico, questo sì da uve autoctone, 80% di Corvina veronese e Corvinone, 20% di Rondinella: è un perfetto standard del genere, godibilissimo.
Evanescente il Bardolino che parte bene al naso ma si affievolisce al gusto. Ma Alla Borsa potete sbizzarrirvi con i vini del Veronese: ci sono tutte le declinazioni possibili.
In chiusura, non perdetevi la potentissima grappa Masi di Recioto: una vera invasione della potenza organolettica della Valpolicella.
Perché Alla Borsa tutto parla di Territorio, anche i gestori, i quali non pensano soltanto alla propria attività, bensì si producono in una continua generosa e appassionata attività di promozione dei pregi naturali e culturali della zona, consapevoli che la loro cucina ne è parte integrante.
Come emerge dal modo in cui Nadia Pasquali racconta questo splendido ristorante e il suo contesto.
Info: www.ristoranteborsa.it
La più antica Pila da Riso funzionante in Italia? E’ nel veronese
E’ simbolo di una storica azienda ma in fondo anche di un intero territorio, la Pila Vecia della Riseria Ferron che si trova a Passolongo di Isola della Scala, in provincia di Verona. Attiva dal 1650, è “considerata la più antica pila funzionante in Italia e ancor oggi utilizzata per lavorare una limitata quantità di riso destinato all’alta ristorazione e alle gastronomie specializzate di tutto il mondo”.
Si erge discreta tra le fughe verso l’infinito delle campagne veronesi, tra il dolce rigagnolo di una risorgiva e una tranquillità bucolica solcata da qualche airone.
E’ musica il passaggio nell’acqua della ruota che aziona i meccanismi della pila, sorta di rintocco dell’orologio biologico della zona, scandito dalle ore di un sano lavoro contadini e artigianale, inframezzato da quello del buon desco.
Dentro la Pila, la struttura storica guarda quella più moderna: da una parte la prima, con le sue poche quantità di riso prodotte grazie alla sapiente manualità dell’Uomo, dall’altra quella meccanizzata capace di lavorare alte quantità di riso; in realtà anche quest’ultima conserva grande romanticismo, essendo quasi interamente realizzata in legno e adoperando una tecnologia così semplice e antica a sua volta da apparire pure essa ormai vestigia del passato.
Quanta Storia vi si respira, intrecciata all’intenso sentore del legno e della volatile pula del riso. Una storia cominciata con la richiesta di potere costruire la pila “inoltrata alla Serenissima il 26 aprile 1644 da Domenico Cristato, latifondiere del tempo”, passata nel corso dei secoli per le vicende di “diverse famiglie del patriziato veneto” che si susseguirono nella sua conduzione.
Fino alla storia più recente, “indissolubilmente legata a quella dei paesi e degli abitanti della zona: durante la seconda Guerra mondiale, i tremendi bombardamenti dell’aviazione alleata si abbatterono tremendamente su tutto il territorio, ma risparmiarono incredibilmente la Pila Vecia, probabilmente perché vicina ad un campo di prigionieri inglesi. Per questa ragione, una quindicina di famiglie rimaste senza abitazione si rifugiarono alla Pila, trasferendo qui le loro attività quotidiane: l’osteria, il maniscalco, la sartoria, il barbiere. Nacque così una piccola comunità, ricordata come Piccola Italia”.
Ecco perché tutti nel territorio e fino a Verona città parlano con ammirato rispetto della struttura come della famiglia Ferron che la gestisce da generazioni.
Una dinastia di Piloti, ovvero di lavoratori delle pile, in grado di costruire una sorta di parco del riso, perché visitare l’azienda corrisponde a una esperienza culturale completa, tra l’emozionante visita guidata alla Pila, i piatti succulenti del Ristorante Pila Vecia con gli immancabili risotti, il punto vendita dei loro prodotti, “tra cui il ricercato Riso Vialone Nano lavorato con i Pestelli”, il relax nel verde o in riva al laghetto, quindi “la riseria didattica dedicata alle visite dei più piccoli”, visto che organizzano tour per scolaresche e gruppi.
Aggiungiamo ancora una ragione potente per raggiungere la Pila Vecia: assistere a una performance del titolare Gabriele Ferron, magnifico istrione capace di ammaliarti ed entusiasmarti con la sua infinita passione competente per la tradizione del riso.
Guardare per credere, mentre ci racconta come si lavora il riso nella più antica Pila d’Italia in funzione…
Info: www.risoferron.com
Come nasce l’acqua di risorgiva per le risaie?
“Il Riso Vialone Nano Veronese è il principe delle nostre terre. Ha come caratteristica dichiarata quella di essere coltivato in aree irrigate con acqua di risorgiva”: si coglie da questa dichiarazione di un produttore importante come Ferron l’importanza di un simile fenomeno naturale per l’agricoltura del territorio della provincia di Verona.
Da definizione, la risorgiva è una sorgente di acqua dolce che affiora in superficie in maniera spontanea, caratteristica delle nostre pianure, con forte concentrazione in quella veneta.
L’acqua delle risorgive è molto importante per la risicoltura, come ci spiega Gabriele Ferron che nella sua azienda di Isola della Scala ne vanta una molto suggestiva anche dal punto di vista ambientalistico.
Info: www.risoferron.com
Ristorante Pila Vecia, il riso fa buon pranzo
Se un ristorante si erge tra lussureggianti risaie e la Pila funzionante più antica d’Italia, è evidente cosa aspettarsi: un clamoroso trionfo di piatti a base di riso. Di vero regno del risotto infatti bisogna parlare per il Ristorante Pila Vecia, collocato all’interno della Riseria Ferron a Isola della Scala, in provincia di Verona.
Non soltanto per i meritati tributi della stampa alla qualità della sua cucina, ma perché qui del riso hanno fatto una cultura: nasce dalla terra, passa dall’artigianato, attraversa la cultura del Territorio, si tuffa nelle tradizioni e dopo essere stato elevato a elemento identitario finalmente ve lo trovate in tavola.
Complici i ricchi racconti e le generose spiegazioni del patron Gabriele Ferron, qui non si viene soltanto per mangiare, ma per respirare cultura contadina. E’ uno spettacolo assistere a Ferron ai fornelli, in una cucina significativamente priva di barriere visive, dalla quale può dialogare con i suoi ospiti, tra spiegazioni di tecniche culinarie e racconti di vita, mentre lui e gli altri cuochi preparano le delizie per il vostro pranzo.
L’ambiente “rustico e accogliente” è “ricavato da un vecchio granaio nel mezzo della campagna veronese”, accanto alla storica Pila del 1650.
La cucina “propone prelibate degustazioni a base di Riso, dall’antipasto al dolce”: ma se volete un consiglio, fatevi preparare almeno tre ricche porzioni del celebre Risotto all’Isolana, perché una volta assaggiato potreste non fermarvi più dal desiderarne ancora, fino a scoppiare.
Si tratta di uno piatti più buoni che si possano mangiare al mondo: senza insozzare la bocca di inutili condimenti, sprizza gioia a ogni movimento della masticazione, tanto è denso e saporito.
E’ frutto di una ricetta dalla semplicità assoluta, una sorta di versione locale e primigenia di quello che nel mantovano si chiama Risotto alla Pilota e che nell’Alto milanese assume i connotati di Risotto alla Luganega. Di zona in zona, a mutare sono i tagli della carne o piccoli ma significativi dettagli, però la sostanza rimane quella di una pietanza a base di riso e carne, ben più succulenta dei risotti pasticciati della cucina sofisticata.
Perfino a Verona ne esiste una versione più antica e radicale come il Riso al Tastasal: quest’ultimo è lo stesso impasto utilizzato per fare il salame, il quale, prima di essere insaccato, veniva tastato cucinandolo con il riso, per verificarne la salatura.
Riso che qui è il Vialone Nano, qualità del veronese tutelata da una Igp e a cui è dedicata perfino una via turistica, la Strada del Riso Vialone Nano Veronese (www.stradadelriso.it), alla quale ha dedicato un prezioso volume il Touring Club Italiano.
Dal ristorante fanno sapere che “i nostri chef sono a disposizione per lezioni di cucina, durante le quali spiegheranno i modi e i tempi di cottura del Riso, proponendo antipasti, primi piatti e dessert”. Dessert davvero notevoli, biscotti al riso di insospettabile bontà.
Quasi tutto quello che vi verrà servito in tavola, potrete portarlo a casa acquistandolo nel negozio adiacente al ristorante.
Tutto ciò che avrete ascoltato invece ve lo porterete via nel cuore: come le narrazioni e le perle di saggezza antica di Gabriele Ferron, alcune delle quali vi offriamo nel video che segue.
Info: www.risoferron.com
Contrà Malini, il coraggio di fare vino all’antica in Valpolicella
“Non sono un enologo, sono soltanto un perito agrario”: che meraviglia sentirlo dire! Che gioia apprestarsi a bere un vino prodotto senza l’arrogante intervento di omologazione degli enologi che puntano al successo. Che conforto ascoltare un produttore che ti dice di fare il vino “come si faceva una volta, come mi ha insegnato mio nonno”.
Altro che scuole di enologia elitarie, altro che pomposi soloni del sedicente “grande vino”: qui si parla di “vino al vino”, di sporcarsi davvero le mani con la terra, di seguire il riscontro empirico e non la corruzione della chimica da laboratorio.
Ma soprattutto qui c’è la storia di un uomo solo che manda avanti un’azienda spaccandosi la schiena in totale solitudine: un vero eroe romantico che corrisponde la nome di Fabio Tezza, titolare dell’omonima azienda agricola che ha dato vita all’etichetta Contrà Malini.
Un uomo che al mattino lascia il figlio piccolo in braccio alla moglie, attraversa la passitaia dove maturano le uve dell’Amarone, apre una porta, varca l’uscio di casa e si trova immerso nei suoi vigneti.
Altro che retorica del chilometro zero e della lentezza contadina: qui l’autenticità è pratica quotidiana, senza fronzoli né ammiccamenti.
Siamo sulla cima di un colle in località Ravazzol, nel comune di Marano, nel cuore della Valpolicella Classica, in provincia di Verona. Una zona che “grazie alla sua favorevole esposizione sud-est, fin dai tempi antichi era chiamata Casa del Sole: è qui che la famiglia Tezza vive da tre generazioni e si dedica alla cura dei vigneti sulle colline circostanti”.
Una tradizione familiare di cui Fabio Tezza è orgoglioso custode. Ogni sua frase è una perla di saggezza popolare: comandamenti di buon senso che andrebbero scolpiti nelle mura di ogni cantina d’Italia (per la Francia e gli altri Paesi non c’è speranza di ravvedimento…), all’insegna di una semplicità bucolica che è l’unica vera rivoluzione possibile oggi.
Per questo, prima di far parlare i suoi vini, vogliamo ascoltare lui: fornitevi di carta e penna, c’è da prendere appunti…
I vini di Contrà Malini.
Lo diciamo una sola volta qui all’inizio, per evitare di ripeterlo a ogni riga: tutti i vini di Contrà Malini sono eccezionali, nel vero senso etimologico del termine.
Non è soltanto la piacevolezza a essere eccezionale, ma anche l’originalità del gusto di ogni prodotto dell’azienda: non ce n’è un suo vino che possa ricordartene un altro, tanto è personale la lavorazione di ciascuna tipologia. In ogni goccia di sente l’amore e la fatica di chi ha lavorato sodo per dare vita a un vino incommensurabile. Non ci resta che andarle a conoscere questi vini.
Valpolicella Classico 2012 fa soltanto acciaio per quattro o cinque mesi: al naso è puro lampone, in bocca è erbaceo e carezzevole, con una punta di acidità che ne amplifica la beva.
Il Valpolicella Classico Superiore 2010 ha meno impatto al naso del precedente ma è più potente al palato, grazie a una notevole presenza tanninica e forte personalità.
Nel Ripasso del Rosario 2010 si ripresenta il sentore di frutta rossa già all’olfatto: anche in questo caso è alta la sensazione del tannino, in un vino meravigliosamente abboccato, per effetto di essere ripassato nel Recioto e nell’Amarone.
Amarone che viene affinato per metà in barrique e per l’altra in botte di rovere: il 2008 esprime una sensazione di marmellata che si avverte già al naso, mentre in bocca è liquoroso; così i suoi 16,5 gradi alcolici danzano con la dolcezza.
L’Ismaere è un passito secco in cui la Rondinella viene sostituita dalla Croatina che dà colore senza aggiungere sapore: potente al naso, ha una nota di liquirizia portata dal legno di Slavonia, un ché di balsamico e un finale che ricorda il succo di melograno.
Il Rosso Malino 2010 è un passito rosso secco che fa gridare al miracolo, mentre ti inebria con i profumi della frutta di bosco fresca; ancor più commovente pensare che questo era il vero Amarone di una volta.
Il Falà 2006, più tanninico dell’Amarone, si trascina al naso il caramello, in maniera suadente, ma con l’austerità di un grande classico
Il Campo de Sampin è un passito rosso che fa soltanto acciaio: dolce ma non troppo, non ha toni da sciroppo, ma tanta natura; eccellente con il formaggio.
Il Recioto del 2006 è più buono della norma, ambrato, ottimo da accompagnare ai dolci.
Il Passito Bianco è un trionfo di pere, al naso come al palato.
Se volete vivere una magnifica esperienza, chiedete di potere andare a provarli direttamente in azienda questi vini, con il produttore che ve li spieghi. Sarà un momento indimenticabile.
Info: www.contramalini.it