Specialmente… a Sciacca (AG): cosa vedere e dove magiare tipico
Se volete davvero capire cosa sia il pesce povero, dovete andare nella sua capitale. Sciacca ha la seconda flotta peschereccia della Sicilia ma è il primo produttore europeo di pesce azzurro lavorato. Viene pescato con il ciancolo, una rete da circuizione utilizzata per le specie di piccole dimensioni che vivono in banchi, come il pesce azzurro. Il pescato è lavorato dalle molte strutture conserviere ittiche, i cui prodotti vengono poi esportati ovunque, anche grazie alla fama meritata del pesce locale.
A Sciacca il pesce azzurro non è soltanto un caposaldo della gastronomia, ma rappresenta un pilastro della cultura popolare.
Per comprenderlo, basta ascoltare le parole appassionate del più romantico ristoratore della citta, Paolo Mandracchia della Trattoria Vecchia Conza.
A Mandracchia non piacciono le esclusive: il suo sincero afflato culturale lo porta a desiderare che tutti i ristoratori della città puntino sul pescato locale, rinunciando a blandire i turisti con il solito pesce globalizzato.
Anche perché il pesce povero lo si trova pure per strada, portato in giro freschissimo dai venditori ambulanti come da antica consuetudine, i quali lo trasportano in città subito dopo che i pescatori del posto lo hanno tirato fuori dal mare.
Questo pesce autoctono rappresenta la tradizione saccense e cucinarlo significa celebrare un’importante radice indentitaria di Sciacca, come ci spiega sempre Paolo.
Il pesce non è l’unica ragione per fare tappa a Sciacca, quarantamila abitanti in provincia di Agrigento, comunemente definita una località di mare, turistica e termale.
Il Comune, per allettare i turisti, punta proprio sulle Terme e ovviamente su spiagge e litorale, ma dà anche rilievo all’artigianato della ceramica e del corallo, nonché al suo celebre carnevale.
E’ però alla sezione Musei che si trova la più potente spinta culturale per visitare la città, anche se relegata come ultima voce nel menu: Il Castello Incantato di Filippo Bentivegna, regno della creatività ossessiva e a lungo incompresa di un genio irregolare dell’arte italiana, sul quale troverete ampia trattazione in questo Speciale.
Ci sarebbe ancora una grandissima attrazione potenziale in città, peccato però che sia ancora inaccessibile, se non agli studiosi di archeologia.
Si tratta del Dolmen scoperto dal geologo saccense Francesco Lo Bue, calamita di interrogativi di grande fascino che richiederebbero un auspicabile maggiore approfondimento scientifico ma soprattutto meriterebbero di essere resi fruibili al pubblico.
Una battaglia culturale sostenuta dal Corriere di Sciacca, concretizzata nella pubblicazione del pamphlet Il Dolmen di Sciacca nel 2011, in cui si può leggere l’illuminante editoriale dell’apprezzato collega Filippo Cardinale, direttore della testata, una cui sintesi vi offriamo qui sotto:
“Sciacca è uno scrigno pieno di tesori. Madre natura le ha rivolto un particolare occhio di benevolenza.
L’uomo, sin dagli albori della sua storia, è stato attratto da questo lembo di terra, baciato dal Mediterraneo e ubicato su un sottosuolo ricco di risorse tra cui spicca quella termale.
La storia del territorio saccense, seppure dimostra la sua consistenza, importanza, rilevanza, riserva sempre nuove scoperte. Appunto, ci appare come uno scrigno il cui fondo è ancora da esplorare, da scrutare.
Sciacca è baciata anche da un’altra ricchezza, questa volta umana: la passione di concittadini che dedicano prezioso tempo alla ricerca di testimonianze che risalgono alle origini della città. E’ grazie a loro che quel formidabile scrigno di storia, archeologia, si è arricchito ancor di più.
Tutto il territorio saccense, considerato nei suoi quattro punti cardinali, rappresenta una indiscutibile testimonianza di reperti, di insediamenti, che riportano assai indietro l’orologio del tempo.
Se Sciacca è ricca di storia medievale, araba, greca, romana, ancora, ne siamo fortemente convinti, deve rivelare importanti testimonianze della presenza neolitica e preistorica.
La scoperta dei dolmen è una chiara dimostrazione che ci indica che sulla storia di Sciacca bisogna ancora scrivere parecchie pagine. Capitoli che risalgono agli albori della presenza dell’uomo.
La città di Sciacca, pur impreziosita da tradizioni ludiche capaci di attrarre flussi di visitatori dalle zone limitrofe, deve sempre più puntare sulla cultura. Si rischia, diversamente, di disperdere un inestimabile valore tramandatoci nei millenni. E’ auspicabile anche una maggiore attenzione da parte della Soprintendenza ai Beni Culturali sul nostro territorio, mirata a valorizzare in maniera più adeguata quanto i nostri concittadini, animati da buona volontà e passione, portano alla luce con le loro ricerche, con i loro studi, affinché la nostra vera ricchezza non venga dispersa, o depauperata dall’inerzia.”
Per sostenere la causa dell’apertura al pubblico di questo sito, illuminante la pagina del pamphlet riportata qui sopra.
In attesa che tutti possano goderne, a visitare questo Dolmen vi ci portiamo noi, con la guida di Franco Lo Bue e del Corriere di Sciacca.
IL DOLMEN DI SCIACCA: ALLE ORIGINI DELLA STORIA DELL’UOMO
Il dolmen è un tipo di tomba megalitica preistorica a camera singola e, insieme al sito di Stonehenge in Gran Bretagna, costituisce il più noto tra i monumenti megalitici. La realizzazione dei dolmen viene inserita nell’arco di tempo che va dalla fine del V millennio a.C. alla fine del III millennio a.C..
Molti esempi di questo tipo, o con temi architettonici più evoluti, sono stati ritrovati anche in Europa. In particolare si possono trovare nel Regno Unito, in Irlanda, in Francia, in Germania, in Spagna, in Portogallo e in Italia (precisamente in Sardegna, in Puglia, in Sicilia).
I dolmen si presentano spesso sotto l’apparenza di semplici tavoli, che per lungo tempo hanno fatto pensare a degli altari pagani. Si tratta, invece, di camere sepolcrali e di gallerie di tumuli.
I dolmen erano delle sepolture collettive riutilizzabili. Questo spiega perché, in certi dolmen, si sia potuto scoprire resti umani di molte centinaia di individui e di corredi funerari appartenenti di differenti periodi (Neolitico, Eneolitico, Età del Bronzo, del Ferro, o persino periodi più tardi).
Un po’ somiglianti alle nostre sepolture gentilizie, i dolmen potevano servire ben più a lungo di quanto si faccia oggi e sicuramente alcune tombe sono state utilizzate per secoli. Il termine sepoltura collettiva non implica necessariamente che si trattasse di una tomba per tutti: vista l’esigua quantità di resti umani rinvenuta in alcuni dolmen di grossa mole – veri e propri monumenti di prestigio- ci si può chiedere se alcuni di essi non fossero riservati a un gruppo privilegiato della comunità.
Quanto al tumulo, esso non aveva solo la funzione di proteggere la camera funeraria ma senza dubbio anche quella di segnalare, forse addirittura di ostentare la sua maestosità: un grande tumulo rivestito e pareggiato, imponeva la sua massa al visitatore e doveva ispirare rispetto per il luogo e conferire sicuro prestigio alla comunità che lo aveva eretto.
Il ritrovamento di una struttura rituale megalitica di tipo dolmenico, ubicata nel territorio di Sciacca, rappresenta di certo valore culturale e storico, un significativo contributo alla valorizzazione del patrimonio archeologico del territorio saccense e siciliano.
L’area, nella quale abbiamo individuato la presenza di una struttura megalitica preistorica, risulta collocata nella parte est del territorio di Sciacca in contrada Galenzo Aquilea-San Giorgio.
L’intera zona, che da decenni viene riconosciuta come sito interessato dalla presenza di rinvenimenti archeologici (il Dolmen Politi-Drago, già Fimmina morta, è distante circa un chilometro), è ubicata a sud-est del Monte San Calogero, luogo preistorico di enorme valore archeologico.
Del Paleolitico nel territorio di Sciacca abbiamo modeste testimonianze; certamente, quando gli effetti della glaciazione del Wurm si estinsero definitivamente, i territori della Sicilia ed anche quelli in oggetto che si affacciano sul Mediterraneo, furono penetrati dall’uomo Sapiens con facilità, trovando aree molto adatte alla sopravvivenza delle antiche popolazioni che incontrano una fauna ed una flora adeguate alle quelle necessità primordiali.
Nell’Isola il megalitismo evidenzia da un lato le peculiarità complessive legate a riti sepolcrali e a credenze religiose portate dal movimento migratorio dal Nord Europa verso il Sud, come evidenzia in modo puntuale lo studio di D. Stomati, ma anche da altre angolazioni un certo assorbimento ad integrazione con la cultura religiosa autoctona.
Il megalitismo dolmenico presenta in Sicilia poche decine di evidenze. A questo proposito osserviamo che, nel contesto nazionale, solo in Puglia e in Sardegna, aree geografiche, per le loro peculiarità sismiche notoriamente poco colpite da violenti terremoti, sono ancora numerose le presenze dei dolmen. Crediamo, pertanto, che questo non sia solo una casualità.
Sicuramente, anche, un acuto ed avanzato stato di antropizzazione del territorio non ha favorito, in genere, la sopravvivenza di queste antichissime strutture, che, peraltro, a differenza delle tombe ipogeiche, presentano una notevole monumentalità e risultano, pertanto, più esposte a manomissioni, incursioni o danneggiamenti, talvolta irreparabili, che determinano la loro scomparsa dal territorio che li ha ospitato per migliaia di anni.
La scoperta del dolmen di contrada Galenzo Aquilea-San Giorgio contribuisce certamente ad arricchire ulteriormente il già significativo patrimonio archeologico della città di Sciacca, ma anche dell’intera Sicilia.
Sono, infatti, poche decine i dolmen presenti nella nostra Isola; più precisamente nella parte occidentale ne sono stati individuati solo due, uno a Mura Pregne, alle pendici del monte Castellaccio (Termini Imerese) e un altro a Sciacca, anche questo in contrada Gelenzo-Aquilea, denominato Politi – Drago, ad un chilometro circa a sud-est dalla struttura dolmenica in oggetto di cui solo oggi viene rivelata l’esistenza.
Si accede al sito in oggetto dalla strada statale Sciacca – Agrigento, all’altezza dello svincolo che porta in contrada San Giorgio, da qui percorrendo una stradella laterale, all’incirca in corrispondenza di un cavalcavia, ci si immette in un’area che in modo diretto evidenzia la struttura arcaica megalitica.
Il sito, che ospita il dolmen, si colloca in una ristretta area di circa 400 mq con una forma poligonale irregolare.
In questo posto remoto dell’isola sembra che il tempo si sia miracolosamente fermato. I pochi insediamenti abitativi, posti ad alcune decine di metri non hanno completamente compromesso o alterato il fascino del luogo, che resta quasi intatto.
L’autore
Francesco Lo Bue (Sciacca, 21/04/1950), geologo, libero professionista.
Si è laureato presso l’Università di Palermo in Scienze geologiche con una tesi sperimentale su Geografia termale della Sicilia. Nei primi anni ’80 si è occupato della figura e delle opere di Filippo Bentivegna di cui ha curato una mostra ed il volume Filippo Bentivegna, ed. ARCI, acquisendo contributi critici di Ludovico Corrao, Franco Solmi, Pietro Consagra e altri. Ha curato nell’86 la riedizione di Sciacca, notizie storiche e documenti ed è stato il curatore editoriale di Sciacca una volta di Filippo Chiappisi, I edizione, 1994.
Ha rinvenuto alcune presenze dolmeniche nel territorio di Sciacca, pubblicando (2011) sul periodico dell’Ordine Regionale dei Geologi di Sicilia: La scoperta di una struttura megalitica “dolmen” in c.da Galenzo-Aquilea, Sciacca. Ha inoltre pubblicato un pamphet nel 2011, ed. CdS, con annesso un testo introduttivo di Sebastiano Tusa dal titolo Il Dolmen di Sciacca. Ha recentemente dato alle stampe, coautore con il prof. Luigi Lo Bue, Da Al Shaqqiyyin ad Al Shaqqah. Le origini dalla città di Sciacca e del suo toponimo.
Attualmente si occupa del fenomeno carsico-termale del monte Cronio con la individuazione del possibile vero accesso alle grotte termali, presenze dolmeniche a Sud del Cronio, dinamica evolutiva della formazione delle manifestazioni vaporose (in fase di pubblicazione).
IL CASTELLO INCANTATO DI BENTIVEGNA, NEL REGNO DI GENIO E FOLLIA
Una delle figure più straordinarie, dolorose e bizzarre della Cultura italiana di tutti i tempi, eppure tre le maggiormente misconosciute. Un uomo traviato dalla vita, irriso ed emarginato, perfino aggredito fisicamente, incompreso anche come artista, tanto che il sito della sua città natale fa notare come “ancor oggi i critici d’arte si dividono tra considerarlo un genio o un pazzo”.
Con queste premesse, impossibile non amare Filippo Bentivegna, figura maledetta perfino dalla sua stessa gente fino a quando un manipolo di illuminati non si è impegnato per farlo rivalutare. Il culmine di questo tributo post-mortem è stata la trasformazione della sua abitazione-atelier saccense in un curioso e molto affascinante luogo espositivo e celebrativo.
L’opera (e quindi la vita) di Bentivegna è stata condensata da lui stesso nella dimora-laboratorio en plein air chiamata Castello Incantato: nome sognante che rende bene una certa atmosfera del luogo ma non in pieno gli aspetti più drammatici e i risvolti oscuri della vita difficile e tumultuosa di questo grande irregolare dell’arte italiana.
Il Castello Incantato viene presentato come “un giardino museo, all’interno del quale si possono ammirare circa 3000 sculture realizzate dallo scultore Filippo Bentivegna, […] un punto di riferimento per Art Brut, mondiale”.
A gestire il Giardino e quindi la memoria di Bentivegna dal 2008 è la cooperativa Agorà, “offrendo una fruizione diversificata del sito museale attraverso una programmazione culturale che spazia dalle mostre ai concerti, dalle rappresentazioni teatrali alla presentazione di libri”.
Il Castello Incantato si trova poco fuori il centro urbano di Sciacca, alle falde del Monte Kronio, “uno spettacolo inventato dall’inventiva dell’uomo e della natura, dove, oltre agli ulivi e ai mandorli, sorgono le teste scavate e scalpellate nella roccia dall’artista detto Filippo di li testi”.
E’ emotivamente devastante l’effetto di camminare tra le onde lapidarie di questo mare pietrificato di dolore e solitudine. Ogni figura, scolpita per sempre nel sordo mutismo, sembra non voglia comunicare nulla, trattenendo in sé l’enigma di questi sguardi vitrei e interrogatori. Ogni soggetto ha il suo segreto chiuso in sé, perentoriamente omertoso nello svelarsi all’osservatore, come fosse figlio della diffidenza dovuta a chi troppe botte ha preso dall’altro.
Così, anche se ti trovi in compagnia, vieni precipitato nei meandri della tua solitudine personale, ravvivata soltanto dallo stupore davanti a tanta perseveranza monotematica. Provoca vertiginoso smarrimento il labirintico percorso creato a posteriori, criticato dai puristi che avrebbero voluto mantenere l’originaria dislocazione caotica delle opere, una volta immerse tra spuntoni di roccia ed erba incolta.
I vialetti tuttavia divengono delle vie guidate per evitare di perdere non soltanto la rotta ma pure se stessi, perché la potenza empatica dell’arte di Bentivegna è capace di trascinarti nel suo gorgo primigenio, in un processo di simbiosi che ti porta a immedesimarti nell’autore: così il circuito tra i muretti ti spinge al movimento incessante, senza tregua, fino allo sfinimento stendhaliano dell’estasi.
Bentivegna è figlio di Sciacca, dove è nato nel 1888 e morto nel 1967.
Di famiglia numerosa e modesta come tante in quel periodo, Bentivegna, senza alcun titolo di studio, andò a cercare fortuna in America, trovando invece ogni forma di umiliazione che un immigrato possa subire in terra ostile.
All’infatuazione infelice per una donna americana, a causa della quale fu picchiato, sarebbe attribuito il mutamento psichico che lo avrebbe portato verso l’arte ma anche verso l’emarginazione sociale.
Rimpatriato, tornò nella sua Sciacca, dove col denaro americano acquistò il podere che sarebbe poi diventato il Castello Incantato. Qui si mise a scolpire ogni cosa: la montagna, gli alberi, perfino i cani, tosandoli ad arte.
“Le sue sculture sono tutte diverse e raffigurano personaggi famosi e non, a cui dava anche un nome e che, nel suo immaginario, rappresentavano i sudditi del regno che egli aveva creato e di cui era il Signore”, si racconta nel sito di Agorà, “amava infatti farsi chiamare dalla gente Sua Eccellenza”.
“Al centro del podere sorge la casetta dove il Bentivegna scolpiva, le cui pareti sono decorate da disegni raffiguranti grattacieli che ricordano il suo soggiorno in America e un pesce che contiene nel proprio ventre un pesce più piccolo che forse simboleggia la traversata dell’artista all’interno della nave che lo condusse a New York”.
Secondo Agorà “si dice che si aggirasse per le vie della città con in mano un corto bastone che reggeva come fosse uno scettro, autoproclamandosi Signore delle caverne per i numerosi cunicoli che scavava nella terra per trovarvi energia”.
Considerato un matto da diversi suoi concittadini del tempo, siamo convinti che avrebbe invece meritato in vita maggiore comprensione per le traversie vissute e affetto per la sua fragilità, oltre che rispetto per la pur straniante produzione artistica.
Per lui si è passato dal dileggio in vita al saccheggio delle sue opere dopo morto, prima che a tutela della sua memoria e della sua arte intervenisse chi oggi lo ricorda e promuove doverosamente.
La storia umana di Bentivegna, la sua epopea carica di dolore, genio e follia, ci viene raccontata dal geologo Francesco Lo Bue, noto studioso saccense esperto di archeologia e di arte. E’ stato tra coloro che hanno fatto rinascere l’interesse per il Bentivegna artista, una rivalutazione critica che ha portato alcune sue sculture a essere esposte al Museo dell’Art Brut di Losanna.
Alle voci di coloro che stanno rendendo tributo a Filippo Bentivegna, nel 1999 si è aggiunta quella dei Virginiana Miller, tra le più celebrate band di culto in Italia. Il gruppo capitanato da Simone Lenzi nell’album Italiamobile ha dedicato all’artista di Sciacca lo struggente brano Bentivegna, capolavoro assoluto di impressionismo musicale che ritrae la vicenda del controverso personaggio con la delicata potenza di liriche altissime e una melodia commovente.
Segno tangibile di come l’artista saccense sia in grado, oggi più che mai, di fare breccia nei cuori più sensibili e nelle menti più attente.
Info: www.castelloincantato.eu
FILIPPO BENTIVEGNA SCOLPITO IN MUSICA DAI VIRGINIANA MILLER
“Vittorio Immanuele Garibbaldo Toro Seduto, tutti mi hanno guardato, le teste senza forza dei morti mi hanno parlato”: soltanto l’immensa arte dei Virginiana Miller poteva riuscire a dimostrare in maniera così vivida che si possa praticare la scultura sulla materia volatile della musica. Il loro ritratto in note della figura tormentata di Filippo Bentivegna irretisce la mente e stravolge il cuore.
Il brano Bentivegna è contenuto nell’album Italiamobile del 1999. Ci voleva la grande sensibilità del leader della band Simone Lenzi, non a caso anche apprezzato scrittore, per cogliere l’essenza del luccichio che rese tragica la vita e sfavillante l’arte del controverso artista saccense. Pochi tocchi che sanno essere illuminanti.
Lui che scolpisce teste di personaggi famosi come “Vittorio Immanuele Garibbaldo Toro Seduto”, intenti a guardarlo e a parlargli dalla muta pietra. L’indifferenza della sua gente al ritorno dall’emigrazione dolorosa negli Stati Uniti (“Benvenuto nessuno – hanno detto – nessuno bentornato”). L’aggressione subita negli Usa (“mattanza di me sulla banchina del porto”) perché “ho guardato la donna sbagliata, l’unica donna sbagliata per me”, presunta causa dell’infermità mentale che gli fu diagnosticata.
Quindi i demoni della sua Arte (“voglio sentire le ombre respirare”), ma soprattutto l’ignobile comportamento di quegli abitanti di Sciacca che raggiungevano il suo Castello Incantato per deriderlo come si fa con gli scemi del villaggio (“portarmi quel poco che c’era da scherzare con me”), umiliandolo come Uomo e come Artista (“ridevano così come ridono i più”).
E’ davvero impressionante come il testo del brano sia in grado di fartelo toccare quest’uomo che ha conosciuto ogni offesa da vivo e violazione da morto (le tante opere trafugate nell’indifferenza generale), prima di essere tardivamente (ri)conosciuto, ma non ancora sufficientemente risarcito.
Il brano, tra i più grandi capolavori della musica italiana, riesce a precipitare l’ascoltatore in una disperazione empatica che tuttavia è costantemente immersa nella dolcezza: vivi il dramma di Bentivegna con lui e al tempo stesso abbracci quell’uomo che volle farsi Re del suo mondo fantastico, come un bambino problematico che si rifugia tra i suoi giochi per sfuggire ai rimbrotti degli adulti che non capiscono.
Abbiamo provato a fare la nostra parte, per rendere omaggio a entrambi questi orgogli del nostro Paese, associando le riprese delle opere di Bentivegna alla meravigliosa mistura di musica e parole dei Virginiana Miller: il risultato è il video che segue.
Trattandosi di pura Poesia, vi proponiamo di seguito il testo integrale del brano Bentivegna dei Virginiana Miller:
Vittorio Immanuele Garibbaldo Toro Seduto
tutti mi hanno guardato
le teste senza forza dei morti mi hanno parlato
Vittorio Immanuele Garibbaldo Toro Seduto
tutti mi hanno parlato
“Benvenuto nessuno -hanno detto- nessuno bentornato”
mattanza, mattanza di me…
mattanza di me sulla banchina del porto
like a tuna fish mattanza di me
iddu sonababic cu li cumpari fanno mattanza di me
che ho guardato la donna sbagliata
l’unica donna sbagliata per me
che scolpito nel magma dei sogni
una storia concreta di sguardi
una fine di pietra per me.
Ade segreto lasciami entrare
con questa testa di cane bastonato
voglio sentire le ombre respirare
vedere i volti che hai cancellato.
E venivano i più lungo i muri dell’orto
a portarmi quel poco che c’era
da scherzare con me:
“Ricinu ca voi abbruciari Sciacca, bravu Filippu, te’ li cirina !”
E ridevano così come ridono i più.
Giove Padre Liberatore lasciami aprirti il cuore
voglio conoscere il fuoco greco
che muove il fiume e incendia il mare.
VIRGINIANA MILLER
Nel 1997 esce il loro primo album, Gelaterie Sconsacrate (B&B/Sony), prodotto artisticamente da Marc Simon, coadiuvato da Giorgio Canali dei C.S.I. Gelaterie Sconsacrate vale al gruppo numerosi riconoscimenti e tanta visibilità.
Sandro Veronesi, in un articolo pubblicato da Musica, scrive:”[…] Gelaterie Sconsacrate, il loro primo cd, è un capolavoro. […] è il disco italiano che aspettavo da vent’anni”. Nel 1999 i Virginiana Miller pubblicano il loro secondo lavoro, Italiamobile (B&B/Sony). Responsabile del progetto tecnico è Toni Soddu, mentre la produzione artistica è, come nel precedente, di Marc Simon.
Nello stesso anno viene pubblicato il libro di Giampaolo Simi Direttissimi Altrove, un noir dichiaratamente ispirato alle atmosfere di Gelaterie Sconsacrate. I Virginiana Miller seguono così l’autore in una serie di reading di presentazione, allestendo per l’occasione un set acustico. Nel 2002 l’esperienza acustica viene suggellata con la pubblicazione del live acustico Salva con nome(B&B/Edel).
La verità sul tennis (Sciopero Records/Mescal/Sony), terzo album di studio della band livornese, arriva nel febbraio 2003. Realizzato con la produzione artistica di Amerigo Verardi, l’album vede la partecipazione di Francesco Bianconi e Rachele Bastreghi dei Baustelle alle voci. Simone Manetti cura la regia del video La Verità sul Tennis che ha come protagonista Pietro Sermonti.
Due anni dopo, nel 2005, esce il libro di Simone Marchesi (Princeton University) Traccia Fantasma, Testi e contesti per le canzoni dei Virginiana Miller. Nato da una lunga amicizia e da un’appassionata assiduità di ascolto, questo libro presenta tutte le canzoni dei Virginiana Miller commentate dall’autore.
Nel settembre 2006, siglato l’accordo con l’etichetta Radiofandango, i Virginiana Miller pubblicano il loro quinto lavoro Fuochi fatui d’artificio. A curare la produzione artistica è chiamato Marco Lenzi.
Nel 2009 i Virginiana Miller registrano, con la produzione di Ale Bavo e Max Casacci (Subsonica), una versione di E’ la pioggia che va dei Rokes per il film Cosmonauta di Susanna Nicchiarelli, vincitore del Premio Controcampo Italiano alla 66 Mostra del Cinema di Venezia.
Nel 2010 esce Il Primo Lunedì del Mondo, quinto album di inediti. Fra le 11 nuove tracce, L’ Angelo Necessario compare nella colonna sonora del film di Paolo Virzì La Prima Cosa Bella.
Nell’autunno esce il libro Virginiana Miller. Storie di Parole e Musica di Andrea Raspanti (Edizioni Erasmo), una biografia musicale con interventi di Sandro Veronesi, Giampaolo Simi, Riccardo Staglianò e del musicologo Marco Lenzi. Alla fine del 2010 tutte le classifiche dei siti web specializzati (XL Repubblica, Rockol, Rockit) inseriscono i Virginiana Miller come assoluti protagonisti tra i dischi dell’anno e dell’intero decennio 2000/2010.
Nel maggio 2011 il gruppo partecipa come house band alla trasmissione di Rai 3 Parla con me condotta da Serena Dandini.
Nel 2012 i Virginiana Miller pubblicano il singolo Tutti i santi giorni, presente nei titoli di coda e nei trailer dell’omonimo film di Paolo Virzì tratto dal romanzo La generazione (Dalai Editore) di Simone Lenzi (cantante e autore dei VM). Il 14 giugno 2013, per il brano Tutti i santi giorni i Virginiana Miller si aggiudicano il David di Donatello nella categoria “Miglior canzone originale”.
Il 17 settembre esce Venga il regno (AlaBianca/Warner Music), sesto lavoro di studio, prodotto da Ale Bavo (Linea77, Subsonica, LNRIPLEY, Velvet, Mina) e registrato al SAM Studio di Lari (Pisa) con la complicità al mixer di Ivan A. Rossi.
L’album, da cui sono stati estratti i singoli Una bella giornata, Anni di piombo e Lettera di San Paolo agli operai, si è affermato come uno dei dischi del 2013 più amati dal pubblico e dalla critica nelle consuete classifiche e referendum di fine anno.
Info: www.virginianamiller.it
ALLA VECCHIA CONZA DI SCIACCA, IL PESCE E’ SEMPRE (PIU’) AZZURRO
Non fatevi fuorviare dalla folla che lo assiepa ogni giorno, né dai prezzi incredibilmente bassi: non sono indicatori di cucina di massa, bensì di una vocazione autenticamente popolare di Paolo Mandracchia che dal 1997 gestisce nel cuore di Sciacca (Agrigento) questa perla della cucina mediterranea come fosse un centro di resistenza civica.
Paolo nella sua cucina fa cultura popolare, povera ma buona come quel pesce locale che gli fa illuminare gli occhi a parlarne, fiero di trasformarlo in piatti favolosi.
E’ questa sua anima vera, la sincerità con cui accoglie, sfama ed emoziona i suoi clienti, a farne un punto di riferimento obbligato per chi vuole mangiare bene non soltanto a Sciacca ma anche per buona parte del litorale in cui è incastonata la città.
La Vecchia Conza si trova in via Pietro Gerardi 39, nel centro storico di Sciacca Terme, tra Porta Palermo e Porta S. Salvatore. E’ uno dei pochi locali in cui davvero ci si possa fidare a lasciar fare all’oste.
L’antipasto è un tuffo in mare aperto. Un mare così vasto che può diventare un pasto completo.
Polpette di sarde, acciughe fritte e panelle testimoniano i rapporti antichi con Palermo, coltivati lungo una direttrice privilegiata che vedeva un collegamento continuo di genti e merci.
Piatti semplici realizzati al massimo livello, in cui la consistenza golosa di polpette e panelle rivaleggiano con la sapidità abbacinante delle turgide acciughe fritte.
La territorialità irrompe con le autoctone sarde a chiappa, irresistibilmente carnose, mentre la spatola in agrodolce è un invito al peccato, non soltanto di gola.
Il fresco continua con gli squisiti calamaretti, salendo in cattedra con due must: i merluzzetti appena passati in farina che davvero squagliano in bocca, mentre il pesce spada pagliaccetto appena scottato è una delicata poesia.
Il trionfo è però appannaggio delle alici marinate: abbiamo visto colleghi commensali ordinarne allo sfinimento, condivisibilmente.
Se non dovesse bastare, ecco allora le acciughe sottolio e soprattutto le sarde in agrodolce con cipolla e capperini, delizie vere.
Con questo percorso, antipasto e secondo sono fusi senza soluzione di continuità, in maniera esaltante.
Ma non si può omettere di parlare degli splendidi primi piatti di pesce del locale.
Il risotto, ben mantecato, senza eccessi, ha un gusto pulito come tutta la cucina di Mandracchia: lo abbiamo provato con gamberi locali e spinaci, in brodo di pesce.
E ancora, maccheroni lunghi fatti in casa, conditi con le sarde: non una minima traccia di unto, una pulizia che riporta in bocca il gusto pieno di acque marine incontaminate.
Paolo non ha segreti, così ci svela la sua cucina: vi consigliamo di prendere appunti…
I vini che accompagnano i piatti spaziano lungo tutta l’Isola. Paolo ci ha consigliato di iniziare con un Kuddia del Gallo, furbissimo zibibbo vinificato secco, così profumato e sapido che è impossibile possa non piacere.
La sorpresa però viene dal Bianco di San Lorenzo, un’affascinante produzione di un’azienda locale, le Cantine De Gregorio con sede in contrada Ragana a Sciacca, la quale così lo presenta: “nella notte di San Lorenzo, il nuovo bianco già fermenta in cantina sprigionando i primi intensi profumi. Dall’incontro di due mondi, la dolce esuberanza dell’Ansonica, la fine leggiadria dell’Incrocio Manzoni, nasce un bianco, sorprendente, profumato, delicato e forte, con una precisa identità”.
Tutto vero, cui aggiungiamo la sensazione di sentire davvero il profumo della terra di Sicilia, della sua frutta estiva ancora fresca. Come sempre accade con l’abbinamento territoriale di cibo e vino, questo bianco si sposa magnificamente con la cucina saccense, rappresentandone un necessario complemento.
Per il fine pasto, da provare il liquore di Canicattì servito dalla casa, denso, naturalmente amaro, sapientemente erbaceo.
Nota di servizio ma anche di costume: qui amari, limoncelli e grappe vengono sempre offerti, sia per la squisita cortesia dei gestori, ma anche per la consolidata abitudine dei clienti locali di pretendere che caffè e ammazzacaffè a fine pasto siano sempre necessariamente offerti, altrimenti non li pagherebbero comunque. Mandracchia, nella sua grande generosità, sorride svelandoci questa consuetudine, tanto gli amari li offrirebbe lui comunque.
Info: www.vecchiaconza.it
I DOLCI TIPICI DI SCIACCA: OVA MURINA E CUCCHITEDDI
I due dolci più tipici di Sciacca rappresentano sia la storia pasticcera che quella sociale della città: la divisione tra le classi nobiliari e il popolo, in passato si sostanziava anche nelle delizie zuccherate appannaggio dell’una o dell’altra categoria.
Il dolce amato dai nobili era l’Ova Murina, mentre il popolo si beava dei Cucchiteddi. Una divisione metaforicamente ancora valida, se si considera che l’Ova Murina è tutt’oggi più elitaria nel consumo rispetto ai più diffusi Cucchiteddi.
Tuttavia i maggiori onori sono toccati proprio all’Ova Murina, cui è toccata l’attribuzione De.Co. (Denominazione Comunale) di Sciacca, concessa soltanto ai prodotti identitari esclusivi di un territorio comunale.
Entrambi questi dolci sarebbero stati inventati e diffusi tra le mura del convento, creati dalle abili mani delle suore tra l’epoca medievale e quella rinascimentale.
Nell’Ova Murina complisce la delicatezza, sia della farcitura che del morbidissimo impasto che la avvolge: prodotto da mangiarsi freschissimo, ha un gusto di grande originalità che rende imperdibile l’esperienza di provarlo.
I Cucchiteddi appartengono invece alla nota categoria dei prodotti dolcissimi siciliani, ovvero la pasticceria estremamente zuccherosa dell’Isola, per effetto di impasti coriacei e glassature ricchissime. Se si ama il genere, c’è parecchio da goderne, altrimenti i meno appassionati a queste specialità potrebbero trovarli stucchevoli: anche in questo caso tuttavia ci sentiamo di consigliare almeno un assaggio che rimane comunque doveroso.
Per documentare la preparazione di entrambi questi dolci, siamo andati nella pasticceria La Favola di Corso Vittorio Emanuele 234 a Sciacca, tra le poche che ancora lo propongono, grazie all’impegno di Salvatore Scaduto.