‘U Morzeddhu, il piatto tipico identitario di Catanzaro
Rappresenta la più profonda identità di Catanzaro, perché racconta la grande dignità di quella cucina del recupero che faceva della povertà virtù: per questo ‘U Morzeddhu è il simbolo della città calabrese, anche oggi che il recupero degli scarti non è fondamentale per la sopravvivenza.
Gli scarti (di un tempo) sono quelli del vitello, un insieme di frattaglie, cuore, polmone, trippa, centopelle, interiora, milza, il tutto cotto per due ore in un pentolone in cui all’acqua vengono aggiunti concentrato di pomodoro, origano e peperoncino.
Il risultato è un tripudio di potenza organolettica, capace di trasmettere una gioia ancestrale: a ogni morso ti viene voglia di chiudere gli occhi, come per farti trascinare in quel tempo antico in cui questa pietanza era soprattutto un ristoro dalla fatiche di lavori usuranti.
Si serve nella pitta o al piatto.
Ma se chiedete a un ristoratore come si debba davvero mangiare, vi dirà che la tradizione ne prevede il consumo dentro la pitta, un grande pane dalla forma rotonda che ricorda una ruota di carro irregolare, dal diametro sottile capace però di espandersi una volta che si imbeve del magnifico sugo della preparazione: la porzione di pane è tale da creare una sorta di mezzaluna, grondante bontà.
Infatti ci siamo sentiti dire che “il bello è che il sugo deve proprio colarti sul viso, quando lo addenti”: effettivamente il godimento è anche quello, quasi infantile, di mollare i freni gastro-inibitori e lasciarti andare alla felicità, mangiando rigorosamente con le sole mani, senza alcun uso di posate.
Noi lo abbiamo provato nella sua versione più autentica, nell’ultima putica (la versione locale delle osterie) rimasta in città, di cui è titolare Salvatore Talarico, al quale abbiamo chiesto di raccontarci questa specialità.