I vini siciliani diversi della Cantina Marilina che fanno la differenza
Affermare di fare vino in direzione ostinata e contraria, prendere idealmente per mano l’interlocutore per condurlo a passo deciso in un mondo dove la diversità è valore primario, fondare la propria identità sull’essere concretamente differenti, per poi ritrovare tutto questo nel bicchiere con massima soddisfazione: è nella perfetta e rigorosa corrispondenza tra il dire e il fare che si coglie la potenza del progetto vitivinicolo della Cantina Marilina, capace di produrre nettari grandi come gli ideali su cui si fonda.
Se poi si impianta un’esperienza così potente in una terra benedetta dalla vocazione enoica come quella nella quale insiste la Contrada San Lorenzo a Noto, allora tutto assume intensità supreme e annuncia stupore.
Tutto nasce quando nel 2001 Angelo Paternò arriva in questo meraviglioso angolo del siracusano, confermando l’amore per i pregi naturali e pedoclimatici del Val di Noto.
Nel 2009 ha già preso vita la cantina e nel frattempo emerge la filosofia di produzione condivisa con la figlia Marilina di vini “dal vigoroso legame con il territorio” che vengano fuori “dal processo naturale dei cicli vitali, senza forzatura alcuna”, con la conseguenziale decisione di condurre l’azienda in regime biologico.
I citati pregi del terroir, tra clima mediterraneo, favorevole ubicazione geografica e terreni calcarei, rappresentano “fattori che amplificano la qualità delle uve e, insieme a una filosofia orientata alla rivisitazione dei tradizionali metodi di produzione (vigneti storici, vasche in cemento, appassimenti al sole), costituiscono il nostro modo di produrre”, senza dimenticare un contesto culturale che vede la cantina immersa “tra le splendide aree di Noto (SR), città patrimonio dell’UNESCO, cuore pulsante di storia e cultura, l’Oasi Faunistica di Vendicari, Marzamemi, Portopalo di Capo Passero e l’Isola delle Correnti, piccoli gioielli della Sicilia sud orientale”, ricadente “nelle due denominazioni d’origine DOC Noto e DOC Eloro che permettono una produzione di vini assolutamente esclusiva e con una spiccata identità territoriale”.
La citata diversità dei prodotti nasce da severi sistemi di vinificazione molto lontani dall’omologazione dilagante, quali “macerazione sulle bucce, fermentazione ed affinamento in vasche di cemento con lieviti indigeni”, per vini “non refrigerati e leggermente filtrati con prodotti naturali”.
Perfino la confezione rispecchia la metodologia di produzione naturale e a impatto zero sull’ambiente, attraverso l’uso di “vetro leggero, tappo in sughero naturale, etichetta in carta naturale riciclata e assenza di capsula”.
Nette e riconoscibili le sezioni della Cantina Marilina che “ha iniziato la sua produzione con la linea dei Monovarietali, vini che provengono da uve autoctone, vinificate in purezza”.
Paradigmatico di tutto l’assunto programmatico della cantina è il suo Nero d’Avola, il Ruversa, “suo” perché, oggettivamente, non abbiamo mai bevuto nulla di minimamente riconducibile a tale personalissima espressione di questo vitigno ormai molto noto e smerciato, qui invece ricondotto alla sua matrice più identitaria, in totale assenza di ruffianeria e in piena presenza di ogni sfumatura organolettica dell’uva. Non a caso chi lo produce lo presenta come “un vino che va in senso inverso rispetto alle mode, niente serbatoi in acciaio, ma vasche di cemento (gli antichi fossi), niente filtrazione, niente refrigerazione, nel totale rispetto delle fasi naturali dell’evoluzione del vino; un vino contro le mode, un vino al contrario” e “al contrario” in siciliano si dice proprio a ruversa.
Lodevole che al grido di “i nostri vini sono libertà!”, la cantina aggiunga “non vi suggeriremo mai un accostamento a questa o a quella ricetta, non vi racconteremo di sentori e sapori, lasciamo tutto alle vostre emozioni”.
Noi ci permettiamo soltanto di notare, in punta di piedi, di avere avvertito al naso immensa freschezza aromatica che richiama il lampone, accompagnata da una nota di muschio. In bocca invece ci sono stati suggeriti succo di melagrana, carruba, ciliegia e terrosità simile al tè Pu-erh.
Sorso goloso, lunga persistenza, corpo agile, facile approccio, frutto succoso e pulito, le altre peculiarità.
Il Cuè è un Moscato Bianco in purezza che vede esaltate le proprie note varietali caratteristiche, amplificando il carattere floreale nell’intenso impatto olfattivo, mentre al palato una stuzzicante sapidità conduce per vie inedite sensazioni agrumate e note di pasticceria, fino a evocazioni di fico d’India e pesca candita.
Sketta pone finalmente al centro dell’attenzione l’ancora non abbastanza conosciuto Grecanico, uva di nobilissimo lignaggio in grado scatenare un inebriante bouquet di gelsomino, mentre le papille gustative individuano ananas, nettarina, yuzu, con screziature minerali che ingolosiscono la beva.
L’azienda arriva però perfino a sbalordire con la linea della produzione ancestrale, introdotta dalla sua descrizione come “metodo fermentativo utilizzato tradizionalmente dai nostri antenati, intorno al 1500, prima dell’arrivo delle moderne tecnologie e degli attuali prodotti dolcificanti, per ottenere vini frizzanti e spumanti quando i tempi del vino erano dettati dalla natura”, purtroppo “soppiantato dai nuovi protocolli applicati per la presa di spuma”. In tale sistema “viene controllata la maturazione delle uve in più fasi e nel momento migliore avviene la raccolta manuale”, cui segue in questo caso la vinificazione in vasche di cemento, mentre “durante la fermentazione del mosto, decantato naturalmente, gli zuccheri sono controllati e al raggiungimento del quantitativo necessario alla presa di spuma, i vini vengono imbottigliati e tappati con tappo a corona: a fine fermentazione e conseguente presa di spuma, i vini rimangono sur-lie, ovvero sui propri lieviti”.
I vini ancestrali quindi “completano la fermentazione in bottiglia, al contrario, nel protocollo più diffuso e classico i vini finiscono la fermentazione e dopo rifermentano in bottiglia, previa aggiunta di sostanze dolcificanti estranee all’uva di partenza”. Ciò comporta “una migliore struttura: gli enzimi e i lieviti presenti in bottiglia favoriscono la complessità organolettica e il frizzante fine e persistente; poiché i lieviti sono amalgamati perfettamente nel vino e non essendo soggetti a sboccatura, questo si presenta torbido con sentore di crosta di pane, dovuto alla presenza dei lieviti prima e alla loro autolisi dopo”. Per questo “il metodo ancestrale, quindi, ben si discosta dal metodo di rifermentazione in bottiglia”.
Qui la pietra angolare è il Fedelie Bianco Ancestrale Frizzante, da uve Moscato, in cui gli annunciati sentori di panificazione sono avviluppati dai fiori di zagara, mentre al palato giungono mela cola, pompelmo e susina bianca. Ma qui a definire il gusto è soprattutto la materia, grazie a un sorso denso e quasi cremoso appena mosso da un fremito brioso.
Quasi un vino da mangiare, ma se messo a tavola non teme alcun abbinamento, anche perché è destinato a troneggiare su tutto il resto.
Il Fedelie Rosato Ancestrale Frizzante riconduce con decisione il Nero d’Avola nel sottobosco, per coglierne i profumi erbacei delle fronde e al contempo i sapori di fragolina, ribes rosso, corbezzolo e karkadè.
Le bollicine dense e lente sono appena un brivido sulla lingua, mentre si comprende nella sua piena esternazione cosa sia davvero il vino contadino di veronelliana memoria.
Ascoltare l’intima motivazione di questo magnifico progetto dalla viva voce di Marilina Paternò, conferma l’autenticità di un’operazione che non soltanto rende il vino più buono, ma anche il mondo più bello. Potete ascoltarla nel video qui sotto.
Info: https://www.cantinamarilina.com/
Distribuzione: https://www.propostavini.com/produttori/produttore/cantina-marilina